Le indagini su un assassinio del 2005, a Locri, e alcune intercettazioni ambientali aprono nuovi scenari sui rapporti tra 'ndrine e amministrazioni locali. Che portano dritto all'omicidio Fortugno
di Pietro Orsatti su left/Avvenimenti del 9 ottobre 2009
La cronaca, la semplice enumerazione di fatti, a volte può portare fuori strada nella narrazione di un determinato evento. Basta che un fattore sia occultato, o venga ritenuto irrilevante o marginale, per far saltare un intero processo logico e portarci del tutto fuori strada. Come in questo caso, se non si è molto attenti. L'omicidio di un capo clan della 'ndrangheta di Locri, Salvatore Cordì, ucciso a Siderno il 31 maggio 2005. Un omicidio che stampa locale e inquirenti inserirono immediatamente nella faida decennale tra i clan Cordì-Cataldo a Locri. Salvatore era nipote di Antonio Cordì, chiamato "U Ragiuneri", ritenuto per lungo tempo a capo dell'omonima cosca di Locri.
Per cominciare ad analizzare una storia come questa è sempre necessario iniziare dal fatto, quindi dalla dinamica dell'omicidio. Per uccidere Salvatore Cordì venne utilizzato un fucile calibro 12 caricato a pallettoni. A sparare, secondo quanto si apprese immediatamente dopo l'agguato, fu una persona che era in sella ad una moto di grossa cilindrata guidata da un complice. Entrambi indossavano un casco integrale, come da manuale in casi del genere. La vittima venne raggiunta alla spalla sinistra, al collo e alla testa dai pallettoni mentre, resosi conto di essere obiettivo di una attentato omicida correva per allontanarsi. Il decesso non fu immediato, ma avvenne in ospedale poche ore dopo. Fin qui la dinamica "apparente", gli eventi che si sono svolti in poche ore sul proscenio di Siderno. Appena tre mesi prima, cioè il 15 febbraio 2005, a Locri la cosca dei Cordì aveva eliminato Giuseppe Cataldo uscito dal carcere da pochi giorni. Un uomo, Giuseppe, di rilievo negli equilibri dei due clan contendenti; figlio, infatti, di Michele e nipote del patriarca Giuseppe. Un omicidio che inevitabilmente riaprì la faida che solo da qualche tempo sembrava essersi quantomeno acquietata. Se fosse possibile. Anno cruciale il 2005 per la famiglia Cordì. L'uccisione del boss della cosca rivale, poi la morte di quello che in parte deteneva il potere del clan, ovvero Salvatore, e poi "l'affare grosso", l'omicidio eccellente. L'omicidio Fortugno.
Il 2 febbraio di quest'anno sul caso del politico assassinato il 16 ottobre 2005 si è arrivati a un punto. Condannati all'ergastolo i mandanti e gli esecutori dell'omicidio Fortugno. La Corte d'assise di Locri, ha quindicondannato Alessandro e Giuseppe Marcianò, padre e figlio, considerati dalla DDA di Reggio Calabria i mandanti del delitto del vicepresidente del consiglio regionale della Calabria ucciso con cinque colpi di pistola all'interno del seggio allestito per le primarie dell'Unione a Locri. Ergastolo anche per Salvatore Ritorto, ritenuto l'autore materiale del delitto e Domenico Audino, definito come il fiancheggiatore. Il pm Marco Colamonici, nel corso della requisitoria del processo per l'omicidio del vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria. Colaminici, facendo riferimento alle dichiarazioni del pentito Domenico Novella, dichiarò una cosa bene precisa, ovvero che i due erano organici del clan dei Cordì, e che Alessandro Marcianò, caposala dell'ospedale di Locri, era in rapporti stretti col boss Cosimo Cordì, ucciso a Locri in un agguato nel 1997. Con lo stesso Cordì, inoltre, Marcianò aveva un rapporto di comparaggio. Un aspetto, questo, che in Calabria e in particolare in determinati ambienti ha un significato ben preciso. Cosa c'entra l'omicidio di Salvatore Cordì con il successivo agguato mortale al vicepresidente della Regione? Nulla, forse. Ma la coincidenza temporale dei tre atti criminali, l'appartenenza dei protagonisti al medesimo clan, danno quantomeno da pensare.
Sempre dalla requisitoria del pm, accolta dal collegio giudicante del processo Fortugno, apprendiamo che l'omicidio «doveva anche rappresentare un messaggio al presidente della Regione Agazio Loriero. Questo per quanto riguarda il versante politico. Sull'altro versante, tutti gli accusati appartengono alla famiglia mafiosa dei Cordì. Ecco perché l'asse politico-mafioso». Il pm, ha anche aggiunto uno scenario ben preciso, individuando sia gli affari dei Cordì che il punto di incontro fra 'ndrangheta e politica, raccontando che «pensando ad un livello più alto, la matrice del delitto va inquadrata nelle risorse pubbliche e nella ripartizione dei fondi per la sanità nella Locride ed in tutta la provincia reggina. Non a caso la sanità pubblica viene definita da tempo come la Fiat della Calabria».
I Cordì stavano cercando di fare il salto nel grande affare della sanità? Oppure, lo avevano già fatto e i due omicidi, quello del capo della cosca rivale e quello del politico che poteva fermare la loro ascesa nel business, sono da mettere nel conto di una politica di mantenimento delle posizione acquisite? È qui, su questa seconda ipotesi, che probabilmente si inserisce la vicenda dell'omicidio di Salvatore Cordì. Non solo, perciò, un omicidio interno a una "faida", ma un omicidio interpretabile in uno scenario mafioso ben più ampio e allarmante, dove l'intreccio fra affari, politica e 'ndrine è terreno per la preparazione e la conduzione di un conflitto molto più ampio di quello che appare al primo sguardo. Non illudiamoci, infatti, che la 'ndrangheta sia mafia di serie B. Oggi la 'ndrangheta è una della quattro organizzazioni criminali più potenti non in Italia ma del mondo. E le famiglie Cataldo e Cordì sono perfettamente inserite in questo quadro, compresa la capacità di infiltrare, condizionare e determinare la politica sia a livello locale che nazionale.
E quindi torniamo a questo omicidio, ai tre colpi di fucile a pallettoni che hanno ammazzato Salvatore Cordì nel maggio del 2005. È in corso un processo nei confronti di sette persone: Antonio Cataldo detto "papuzzella", Francesco Cataldo detto "u prufissuri", Giuseppe Cataldo, Michele Curciarello, Antonio Martino, Antonio Panetta e Salvatore Panetta. Mentre altri due imputati, i fratelli Giuseppe e Domenico Zucco, sono stati processati separatamente. I nove sono stati individuati nel corso di un'indagine molto complessa partita da un'intercettazione telefonica.
Al momento dell'omicidio, infatti, come riportato dalla richiesta di applicazione delle misure cautelari della Direzione distrettuale antimafia «erano in corso attività di intercettazione telefonica ed ambientale» in relazione «di una indagine riguardante gli interessi della cosca Cataldo di Locri nel traffico di sostanze stupefacenti». Riascoltando immediatamente dopo l'agguato le registrazioni del giorno del delitto, l'attenzione degli investigatori si concentrò su un'utenza telefonica, quella intestata a Domenico Zucco dove si ascoltava all'ora del delitto «un tentativo di chiamata verso il telefono cellulare in uso a Panetta Antonio, che consentiva di registrare ed ascoltare le tracce sonore di quanto avveniva nell'ambiente in cui il chiamante – Zucco Domenico – si trovava in quel momento». E i pm proseguono raccontando che «in particolare, si registravano alcuni squilli a vuoto, quindi un rumore simile ad uno sparo e le immediate grida di una donna». Da qui è partita l'indagine. Che per la natura stessa (l'incrocio "relazionale" dei traffici telefonici e di intercettazioni) dell'inchiesta ha visto in qualità di perito Gioacchino Genchi, il poliziotto e consulente delle procure di mezza Italia conosciuto soprattutto per la perizia del processo per la strage di via D'Amelio nel '92 e per "l'affaire" Why Not. Un'indagine che è riuscita a determinare un movente chiaro (che è il controllo egemone dell'insieme delle 'ndrine della Locride), una catena di comando e un'insieme di relazioni inquietanti che si allargavano a macchia d'olio ben oltre i confini delimitati delle organizzazioni criminali.
C'è un'intercettazione ambientale, di cui è oggetto in parte lo stesso Genchi, che mostra uno spaccato del livello di potere della cosca che lascia senza fiato. L'intercettazione avviene in carcere, durante una visita di Francesco e Nicola Cataldo al detenuto Antonio Cataldo. I tre dialogano apertamente del processo in corso, fanno capire che sono a conoscenza di come vanno le indagine relative a loro e anche ad altri procedimenti e che temono un allargamento dell'indagine ad altre persone rimaste fino ad allora estranee. A un certo punto il boss detenuto esplode e fa un riferimento chiaro alle indagini: «Questo fatto qua, gli ha chiesto il rito immediato è un rito immediato è un rito pericoloso perché non gli dà spazio alla difesa, lui adesso porta carte nuove, dice che da tre anni che sta facendo indagini, quello Genchi è un pericolo… totale… Io ho letto carta in processi di giornali a Catanzaro (il riferimento all'inchiesta Why Not è evidente, ndr), a Napoli, dove lo chiamano da tutte le parti e non solo mette quello che è indagine pura e… ma mette pure di più…». L'intercettazione a questo punto diventa per alcuni secondi incomprensibile, chi trascrive parla di una sovrapposizione di voci, poi Antonio riprende infuriato: «Ma sai cosa vuol dire una custodia cautelare da qua dentro?… che il processo uno non lo può seguire, sai che vuol dire per innescare un meccanismo di quell'altro processo come siamo qua… e vi dovete muovere… basta, leggetevi i giornali… e la puttana della miseria». L'interpretazione dei pm dell'intera conversazione e che Antonio Cataldo, ispirato sia dalla lettura di un giornale (probabilmente un articolo pubblicato dal Calabria Ora, ndr) che probabilmente da altre informazioni, tema un allargamento dell'inchiesta, come poi effettivamente avvenuto, e cerca di esortare i suoi parenti affinché «si adottino adeguate contromisure, che possono consistere in iniziative processuali (evidentemente, all'interno del processo nei confronti di Zucco Domenico), ma che, si intuisce, potranno e dovranno essere anche di altra natura e quindi volte ad inquinare il quadro probatorio o a garantirsi l'irreperibilità». Quali siano queste "altre misure" è difficile capirlo, ma visti gli intrecci emersi a Locri di questo clan, come per quanto riguarda i rivali Caprì, pensare a appoggi "esterni" o all'uso della violenza non è azzardato.
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