giovedì 21 giugno 2012

"Legittima difesa" trasloca su http://www.gioacchinogenchi.it

Cari amici,
da qualche giorno, ripresa la professione di avvocato, ho pubblicato il sito Web www.gioacchinogenchi.it, riguardante l'attività professionale del mio studio legale.
In una sezione del sito, denominata "Blog-Rassegna stampa", è mio intendimento trasferire e aggiornare il contenuto del blog "Legittima difesa" che, come ricorderete, avevo aperto nel 2007, quando sono iniziati gli attacchi dei "poteri forti", tendenti alla mia delegittimazione personale e professionale.
Le ultime vicende, dall'incrminazione alla condanna del PM Achille Toro, fino ad arrivare alle intercettazioni di Nicola Mancino col Quirinale e col PM di Roma Nello Rossi, confermano che ci avevo e ci avevamo visto bene.
Ad uno ad uno stanno tutti buttando la maschera.
Io attendo paziente "sulla riva del fiume".
Ad essere sincero l'unica paura che ho è quella di essere travolto dalla piena.
Con queste considerazioni vi rinvio al sito www.gioacchinogenchi.it che, grazie all'aiuto di amici e collaboratori e di mio figlio Walter (che ne è il Web master) contiamo di aggiornare quanto prima, con la rassegna stampa delle vicende di cui sono stato testimone e protagonista negli ultimi 25 anni. 
È un mio dovere farlo per rispetto di quanti mi sono stati vicino e mi hanno dato fiducia e solidarietà.
Penso che oggi in Italia siamo rimasti in pochi a poter essere orgogliosi e non doverci vergognare del nostro passato. 
Con questi sentimenti guardo al futuro, con ottimismo e con speranza, ricordando i volti, il sorriso e la tensione morale dei tanti giovani che ho incontrato in questi anni in tutt'Italia. 
Ai miei figli e a loro dedico questo sito e quello che sarà il mio impegno sociale e professionale nei prossimi anni. 
Un caro saluto a tutti e arrivederci su www.gioacchinogenchi.it
Gioacchino Genchi

domenica 22 gennaio 2012

Lesa impunità

Lesa impunità

di Marco Travaglio, da "il Fatto Quotidiano" di domenica 22 gennaio 2012

Avete presente la Procura di Roma? A parte pochi pm che non guardano in faccia nessuno, è la Procura che in questi anni è riuscita a far archiviare i reati di qualunque politico le capitasse a tiro. Soprattutto uno: B. Archiviato perché scarrozzava sugli aerei di Stato menestrelli e mignotte, nani e ballerine. Archiviato perché mobbizzava il marito della sua amante Virginia Sanjust. Archiviato perché raccomandava le papi girls a Raifiction. Archiviato perché comprava senatori dell’Unione. Archiviato perché minacciava il suo uomo all’Agcom per far chiudere Annozero. Archiviato sempre, a prescindere. Ieri però un politico è riuscita a farlo rinviare a giudizio: Luigi De Magistris, che va a processo con il suo ex consulente Gioacchino Genchi per abuso d’ufficio.

Che han fatto i due manigoldi? Abusato di voli di Stato, raccomandato favorite, perseguitato mariti di amanti, comprato senatori, minacciato authority perché violassero i loro doveri istituzionali? No, molto peggio: nel 2007, quando seguivano a Catanzaro l’inchiesta “Why Not”, acquisirono dalle compagnie telefoniche i dati sui tabulati telefonici di 8 parlamentari (Prodi, Mastella, Rutelli, Pisanu, Gozi, Minniti, Gentile, Pittelli) senz’aver chiesto il permesso al Parlamento, violandone l’immunità. Un ingenuo domanderà: come fai a sapere che questo o quel numero telefonico è di un parlamentare? Prima acquisisci i dati dalla compagnia e poi, se scopri che l’intestatario è un eletto, chiedi alle Camere l’autorizzazione a usarlo. Invece i pm e i gip di Roma devono essere dei medium: appena vedono un numero, intuiscono subito che appartiene a un parlamentare. Dunque non si spiegano perché De Magistris e Genchi chiedessero a Tim o Vodafone o Wind di chi fosse un numero: dovevano saperlo prima, per scienza infusa. In caso contrario, è abuso d’ufficio. Ora, dal 1997 l’abuso non è più reato, a meno che non produca un vantaggio patrimoniale o un danno a qualcuno. Ma il pm Caperna e il gup Callari il danno l’han trovato: i parlamentari avrebbero subìto “un danno ingiusto consistente nella conoscibilità di dati esterni di traffico relativi alle loro comunicazioni”. Cioè: si è saputo a chi telefonavano. Il solito ingenuo obietterà: ma il danno, ammesso che esista, i parlamentari se lo sono procurato da soli, visto che nessuno li obbligava a chiamare persone così poco raccomandabili da danneggiarli una volta emerse. Se non fosse un processo, ci sarebbe da ridere. Anche perché sugli eventuali reati dei pm di Catanzaro è competente la Procura di Salerno, non di Roma. E qui le risate raddoppiano: perché l’inchiesta romana la aprì Achille Toro, già in rapporti con personaggi emersi in “Why Not”, poi costretto a lasciare la magistratura per lo scandalo della cricca; e perché dall’accusa di abuso d’ufficio per i tabulati di Mastella, De Magistris era già stato inquisito a Salerno, ben prima di Roma, e archiviato. Ora verrà riprocessato a Roma per lo stesso reato. I giudici della Capitale hanno affermato la propria competenza con argomenti vari e variabili.

1) Fra le parti offese, ci sarebbe il Parlamento (ma poi si sono scordati di citare all’udienza i presidenti delle Camere).

2) Il primo tabulato incriminato arrivò da Wind con sede a Roma (falso: arrivò da Vodafone con sede a Pozzuoli).

3) Siccome i dati le compagnie li trasmettono criptati, non si sa se Genchi li decrittò nel suo ufficio a Palermo o da qualche altra parte.

Dunque, nel dubbio, è competente il pm che ha aperto la prima inchiesta. Dunque Salerno? In teoria sì, però per Salerno il reato non c’è. Dunque si ritenta a Roma: vedi mai che almeno lì si trovi un giudice disposto a condannare. Ultima chicca: fra le vittime del presunto abuso di De Magistris e Genchi c’è anche Pisanu, il quale però ha già detto a verbale che il tabulato che lo riguarda non è suo, ma della moglie (non parlamentare, dunque non immune). Ma che sarà mai. Vorrà dire che Pisanu è vittima ma non lo sa. E sua moglie è attratta dall’immunità del marito, per contagio. Un’immunità extralarge, formato famiglia.

sabato 27 agosto 2011

Gladiatori della Casta

Gladiatori della Casta

di Edoardo Montolli (dal mensile IL, in allegato al Sole 24Ore, settembre 2011)

 

Dalla P4 ai depistaggi sulle stragi di mafia, quando negli scandali spunta il nome di qualche alto ufficiale delle forze dell'ordine, finisce tutto in una bolla di sapone. Con il plauso dei politici

 

Che prendano il nome dal dio del mare, come Poseidone, o siano contrassegnate da una domanda qualunque in inglese, Why Not, che si fregino di un logo matematico– esoterico come P4 (1) o di un sostantivo volgare come cricca, finiscono tutte allo stesso modo, ossia in un pugno di mosche, le indagini degli ultimi anni che stanno bersagliando decine e decine di generali e alti ufficiali della Finanza, dei Carabinieri, della Polizia e dei Servizi. Non tutti sono indagati: molti figurano come semplici testimoni, altri anche solo come protagonisti di singoli episodi di valore più morale che penale: per esempio, salta fuori ora che il generale Adriano Santini, per diventare direttore dell'Aise (Agenzia informazioni e sicurezza esterna, il controspionaggio), si è fatto accompagnare da Luigi Bisignani fino dal presidente del Comitato di controllo parlamentare dei servizi Massimo D'Alema.

Di Bisignani, del resto, un'informativa delle Fiamme gialle recita: «Chiedono ripetutamente un appuntamento o di interloquire anche solo telefonicamente con Bisignani alti ufficiali dell'Arma dei carabinieri e della Guardia di finanza nonché prefetti della Repubblica». Certo, non è reato cercare di farsi delle amicizie, ma la ragione per cui militari che hanno giurato fedeltà allo Stato facciano la coda per incontrare un soggetto che è pregiudicato per la più grossa mazzetta della Prima repubblica, la maxitangente Enimont, che figurava nella lista P2 al fascicolo 203, e che peraltro non ricopre nemmeno incarichi istituzionali, è sospetta. Oggi come oggi sembra che la questione morale non sfiori nemmeno più le forze dell'ordine, ma a mettere in fila tutte le inchieste nelle cui maglie sono finiti tanti generali e ufficiali si scopre che nessuno ha mai subito contraccolpi di carriera né in caso di avvio di indagini poi terminate con l'archiviazione o l'assoluzione, né, tantomeno, in caso di condanne non definitive. Che si tratti di Gdf, carabinieri, polizia o di 007.

 

Nella Guardia di finanza gli ultimi in ordine di tempo a essere stati inquisiti sono il generale Vito Bardi e il generale Michele Adinolfi, recente protagonista del caso Milanese-Tremonti: indagati per favoreggiamento e rivelazione del segreto istruttorio all'interno dell'inchiesta P4 e ora trasferiti. Il primo a ispettore per gli istituti di istruzione e il secondo (appena promosso su proposta di Giulio Tremonti da generale di Divisione a generale di Corpo d'armata) dal 15 settembre assumerà l'incarico di comandante interregionale a Firenze. Adinolfi addirittura, capo di Stato Maggiore (che non risulta agli atti un conoscente di Bisignani), pare sia il più decorato tra le Fiamme gialle. Una carriera sfavillante, appena sfiorata da qualche piccolo incidente di percorso, come la sua testimonianza del 31 marzo 1995 al processo contro l'ex funzionario del Sisde Bruno Contrada. Adinolfi fu sentito a proposito della fuga in Svizzera dell'imprenditore bresciano Oliviero Tognoli, sparito il giorno stesso in cui dovevano arrestarlo nell'operazione Pizza Connection, prima di costituirsi nel 1989. Adinolfi, all'epoca dei fatti maggiore, era consulente esterno della Commissione parlamentare antimafia, e fu indagato con altri dieci (tra cui l'ex generale Mario Mori) per falsa testimonianza. L'indagine è stata archiviata per tutti su richiesta della stessa Procura di Palermo nel luglio del 2000.

 

Un anno prima era ormai diventato colonnello, vicepresidente del Cocer delle Fiamme gialle e comandante del gruppo della Guardia di finanza di Catania. Allora finì nel mirino dei pm milanesi, che pensavano che un imprenditore, tale Natale Sartori, avesse costituito al Nord una sorta di filiale di Cosa nostra dedita al narcotraffico, alle false fatturazioni, alla tutela dei latitanti e in particolare alla costruzione di una rete di rapporti con ufficiali di polizia giudiziaria, politici e altre personalità. Il tutto con la regia dell'ex stalliere di Arcore Vittorio Mangano. Adinolfi era apparso nelle intercettazioni come la «maniglia grande»: l'uomo che avrebbe dovuto aiutare Sartori a salvare le sue aziende da un controllo delle Fiamme gialle. Il numero dell'ufficiale era sulle agende di Marcello Dell'Utri. Anche in quel caso l'inchiesta finì archiviata: a Milano non c'era stata alcuna filiale di Cosa nostra. Emerse solo che Adinolfi aveva semplicemente messo in contatto l'imprenditore con un commercialista.

 

Passarono gli anni e, diventato generale, Adinolfi entrò tra i fedelissimi del generale Roberto Speciale, che lo portò al comando della Regione Lazio, poco prima di passare il timone a Cosimo D'Arrigo in seguito a un'accesa polemica con il ministro Vincenzo Visco. Correva la primavera del 2007 e in Calabria De Magistris apriva l'inchiesta Why Not: il nome di Adinolfi spuntò di nuovo, non tra gli indagati, ma tra coloro che risultavano in rapporti di grande amicizia con il principale inquisito, il veterinario leader della Compagnia delle opere per il Sud Italia, Antonio Saladino. E l'allora poliziotto e consulente del pm, Gioacchino Genchi, doveva relazionare al magistrato anche sui rapporti di Adinolfi con un altro indagato (e poi archiviato): il costruttore fiorentino Valerio Carducci, lo stesso imprenditore da cui prenderà poi il via l'inchiesta sulla "cricca" e che ritorna oggi come testimone  nell'indagine P4 sul magistrato e deputato Alfonso Papa. Genchi avrebbe dovuto far rapporto al pm anche sulle telefonate tra Adinolfi e il professor Giancarlo Elia Valori (non indagato), all'epoca leader degli industriali del Lazio, uomo dalle ramificatissime relazioni istituzionali e risultato l'unico espulso dalla loggia P2 (a cui ha sempre negato di essere appartenuto). Ma poi De Magistris fu trasferito, Genchi revocato da consulente, e di quelle chiamate resta traccia solo nelle memorie difensive dell'ex poliziotto indagato dalla Procura di Roma (2).

 

Il 12 gennaio 2009 Adinolfi diventava capo di Stato Maggiore, prendendo il posto del generale Paolo Poletti, promosso a vicedirettore dell'Aisi. E proprio Poletti, che ora è stato chiamato come teste per raccontare dei suoi rapporti con Alfonso Papa nell'inchiesta P4, all'epoca di Why Not fu indagato. Lo tirò in ballo la testimone chiave del procedimento, Caterina Merante, parlando di un archivio documentale della Finanza che sarebbe dovuto transitare nella gestione di una società di Saladino, cosa che poi non accadde. E il numero del suo interno al Comando generale risultava nell'agenda di Valerio Carducci alla voce "Poletti". Quando la versione della Merante divenne nota, Poletti era già stato nominato da Speciale Capo di Stato maggiore. Ci fu un discreto scandalo, ma la sua posizione fu presto archiviata. Archiviata come quella di un altro generale delle Fiamme gialle, già a capo dell'intelligence, Walter Cretella Lombardo, uscito indenne da una vera bufera giudiziaria in Calabria. Il suo nome emerse la prima volta quando, nell'ambito dell'indagine Poseidone, fecero una perquisizione a casa di un ingegnere e funzionario Anas, Giovanbattista Papello, responsabile unico per l'emergenza ambientale in Calabria. Papello non c'era. Ma a casa i carabinieri gli trovarono un grembiulino massonico, documenti di trasporto di una partita di diamanti, e le trascrizioni di presunte intercettazioni illegali avvenute il 15 novembre del 2004, tra il presidente dell'Anas Vincenzo Pozzi e il segretario dei Ds Piero Fassino (risultate false). E ancora, un bigliettino da visita, vergato a penna, con il numero privato del cellulare proprio del generale Walter Cretella Lombardo. L'ufficiale è un uomo dai plurimi contatti con persone su cui proprio Genchi aveva indagato: come l'imprenditore Domenico Mollica, finito nella tangentopoli siciliana degli anni Novanta, il quale tenne banco sulle cronache perché alcuni politici erano usi essere suoi ospiti in barca; o l'imprenditore Tonino Gatto della Despar, segnalato dalla Procura nazionale antimafia come possibile riciclatore di fondi Ue in Lussemburgo (caso poi archiviato); e società all'epoca al centro delle indagini di Poseidone. Quando sequestrarono il suo telefono, trovarono nella rubrica, alla voce "Fonte Brava" il numero di una promotrice finanziaria condannata in primo grado per sequestro di persona insieme a due agenti del Nocs: pare fosse un terzetto di persone che voleva accreditarsi agli alti livelli delle forze dell'ordine, e che per tale ragione in passato aveva fatto trovare impacchettati criminali belli e pronti, compiendo reati. Non che fosse l'unico numero curioso apparso nella rubrica del generale. C'era il professor Giancarlo Elia Valori, sulle cui telefonate Genchi avrebbe dovuto stilare una relazione al pm. E c'era soprattutto quello di Luigi Bisignani, alla voce "Bisignani cr.", il quale, per la prima volta, fece così capolino nelle inchieste calabresi, da cui sarebbe anch'egli uscito prosciolto.

 

Ma appunto, un generale della Finanza che intrattiene rapporti con un pregiudicato per la «madre di tutte le tangenti», così come fu ribattezzata, non stupisce nemmeno più sotto il profilo morale. Ad aprile 2008 Cretella Lombardo fu promosso a capo delle unità speciali e oggi è al comando della Regione Veneto.

 

Nella lista dei conoscenti del manager condannato per la maxitangente Enimont spunta ora, dall'informativa delle Fiamme gialle sulla P4, anche il generale Fabrizio Lisi, già comandante della caserma di Coppito che ospitò il G8 nel 2009, comparso in Why Not per le svariate telefonate intrattenute con diverse persone e società entrate nei fascicoli calabresi.

 

Se oggi è la Guardia di finanza a essere travolta dalla bufera, fino a poco tempo fa a tenere banco è stato il fiore all'occhiello dei carabinieri: il Raggruppamento operativo speciale. Senza tornare al caso delle talpe nella Dda che avvertirono il boss palermitano Giuseppe Guttadauro di avergli messo le cimici in casa (si trattava di sottufficiali) basti pensare al processo in corso a Palermo contro l'ex capo del Ros e del Sisde (3) Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu per favoreggiamento aggravato nei confronti della mafia. L'inchiesta prende le mosse dalle rivelazioni di un altro colonello del Ros, Michele Riccio, condannato a marzo in Cassazione a quattro anni e dieci mesi insieme ad altri colleghi, per alcune operazioni piuttosto disinvolte: detenzione e spaccio di stupefacenti finalizzati a favorire i suoi confidenti e a consentire alcune operazioni di successo per ottenere avanzamenti di carriera. Le rivelazioni di Riccio riguardano il boss Luigi Ilardo, che fu misteriosamente ammazzato a fucilate proprio nel momento in cui aveva deciso di mettere nero su bianco la propria collaborazione con la giustizia. L'inchiesta di oggi verte sulla mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995, quando, secondo i pm, Ilardo avrebbe potuto portare Mori ad arrestare il capo dei capi.

 

Ma non sono solo gli ex vertici del Ros a essere sotto processo. Obinu, oggi ai servizi segreti, è intanto già stato condannato in primo grado a sette anni e dieci mesi insieme all'attuale comandante del Ros, il generale Giampaolo Ganzer, che di anni ne ha presi 14 per traffico internazionale di droga. Scrivono i giudici milanesi che Ganzer «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l'assoluta impunità. Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Non lo hanno condannato per il reato associativo, ma la Corte ha scritto che il generale sarebbe affetto da una «preoccupante personalità» che lo avrebbe portato a «commettere anche gravissimi reati per raggiungere gli obiettivi ai quali è spinto dalla sua smisurata ambizione». La sentenza è del luglio dello scorso anno e Ganzer è sempre al comando del Ros, a indagare su persone in merito agli stessi reati per i quali lui è stato condannato in prima battuta. A dicembre, in un'intervista a Libero, disse: «Rimango al mio posto, continuo a fare il mio lavoro come sempre, perchè sento l'Arma con me». Grande solidarietà gli è stata espressa pure dagli esponenti politici di un po' tutti i partiti.

 

 

Per passare agli 007, gli scandali sui servizi esistono da sempre e sono diversi. Tuttavia due hanno destato particolarmente stupore. Il primo è il presunto coinvolgimento del Sismi nel sequestro di Abu Omar operato dalla Cia. Negli Stati Uniti gli agenti, processati, non hanno nemmeno ottenuto le attenuanti generiche: da otto a nove anni per Bob Seldon Lady, capo della Cia a Milano al tempo del sequestro, e da cinque a sette anni per gli altri. In Italia l'ex capo del Sismi, il generale Nicolò Pollari, e il suo braccio destro Marco Mancini sono stati invece dichiarati non giudicabili, per l'opposizione che hanno fatto del segreto di Stato. Scrivono i giudici dell'appello: «Non esiste alcun concreto elemento positivo che dimostri l'estraneità del generale Pollari all'accusa», ma non si può giudicare «nel momento in cui opera "il sipario nero" del segreto di Stato». L'avvocato di Pollari, Nicola Madia, dichiarò alla lettura della sentenza, che Pollari «avrebbe potuto dimostrare la sua innocenza nel processo, se la vicenda non fosse stata coperta dal segreto di Stato». Ma è andata così. Ed è andata così anche in un secondo procedimento che ha riguardato Marco Mancini, per la vicenda dello spionaggio Telecom. Il meccanismo è identico: all'opposizione del segreto di Stato segue il proscioglimento. A marzo, dopo un periodo di sospensione dal servizio in attesa di giudizio, Mancini è stato nominato capocentro dell'Aise a Vienna.

 

Un'altra singolare inchiesta sugli 007 è in corso a Caltanissetta, e riguarda le stragi del 1992. Da tempo si cerca il famigerato uomo dei servizi con la "faccia da mostro" che avrebbe ordito con la mafia gli attentati. Sia quel che sia, ma da quando il pentito Gaspare Spatuzza ha affermato che fu lui a rubare la 126 esplosiva che fece saltare per aria il giudice Paolo Borsellino il 19 luglio 1992 (4), è tutto tornato al punto di partenza. Spatuzza si è attribuito quel che era stato imputato a un delinquente da quattro soldi incastrato da due balordi pregiudicati, che diventò poi il caposaldo dell'indagine su via D'Amelio: e cioè Vincenzo Scarantino, il "pentito" che fece pure i nomi dei mandanti. All'origine di tutto ci sono gli interrogatori fatti da uno dei poliziotti più famosi d'Italia, Arnaldo La Barbera, che pare lavorasse anche per i servizi con il nome in codice Catullo. E certo è che se non fosse deceduto, oggi sarebbe probabilmente indagato per depistaggio insieme alla quasi totalità dei poliziotti del gruppo di Falcone e Borsellino, messo in piedi appositamente per trovare i responsabili della strage. Quei poliziotti oggi per la gran parte sono stimati questori e dirigenti in diverse parti d'Italia. E qualsiasi sia l'esito dell'inchiesta ancora segretissima, se è vero che Scarantino non rubò l'auto, ci si chiede come sia stato possibile dargli tutta questa attendibilità. Forse la risposta era già uscita in un'altra aula di giustizia: «Realizzammo una sorta di schedatura degli esponenti della famiglia Madonia, cercammo di individuare l'officina dove l'auto venne imbottita di tritolo. Accertammo anche rapporti tra Scarantino, appena arrestato, e alcuni esponenti mafiosi». Sono le parole pronunciate il 25 novembre 1994 da Bruno Contrada, ex numero tre del Sisde, nel corso del processo in cui fu condannato in via definitiva a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa, in una sentenza che suscitò polemiche politiche a non finire.

 

Ma i tutori dell'ordine pubblico di recente sono entrati nella tempesta anche per altro. A giugno la corte d'appello di Bologna ha confermato la condanna a tre anni e sei mesi per quattro poliziotti che hanno causato la morte del giovane Federico Aldrovandi. Mai sospesi, furono spostati di sede quattro anni dopo l'omicidio, avvenuto il 25 settembre del 2005 a Ferrara. Disse la madre, Patrizia Moretti, quando lo seppe: «È ridicolo che possano ancora andare in giro armati» e «vederli in giro per la città ci faceva male, molto male. E ci faceva paura, perché per me, e per il giudice, hanno ucciso mio figlio». Fu un episodio doloroso, ma isolato. Per un altro, assai più collettivo, il mondo ha guardato e guarda ancora l'Italia sgomento: quello della "macelleria" della scuola Diaz, durante i fatti del G8 di Genova del 2001. I feriti furono 69, tre gravissimi, tra uomini, donne e ragazzini colti nel sonno. Nella scuola entrarono 250 agenti e per via del casco indossato nessuno seppe mai chi infierì su alcune persone, pestate a sangue: 25 condannati su 27 in appello, già prescritti i reati di calunnia, arresto illegale e lesioni, restano in piedi le lesioni gravi e il falso ideologico. Il 17 giugno 2010 anche l'ex capo della polizia Gianni De Gennaro è stato condannato a un anno e quattro mesi, per induzione alla falsa testimonianza.  Attualmente è direttore del Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza: servizi segreti.

 

Quanto ai condannati per le brutali percosse, il pm dei fatti di Genova del 2001, Enrico Zucca, ha dichiarato nel libro di Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci L'eclisse della democrazia (Feltrinelli): «La Corte europea dei diritti dell'Uomo ha stabilito il principio cogente per cui il rappresentante dello Stato posto sotto processo in casi del genere deve essere sospeso e, se condannato, rimosso». Invece no. Né sospesi, né rimossi. In attesa della Cassazione, li hanno promossi. Tutte queste vicende hanno a che fare soprattutto con l'etica di uno Stato. Si può obiettare che in uno Stato garantista anche una persona condannata per fatti gravissimi possa restare al proprio posto, armata, a svolgere indagini, finché non sopraggiunge sentenza definitiva (5).

 

Ma viene da pensare che questo garantismo non valga affatto per tutti e abbia, come sempre, due pesi e due misure: il vicequestore Gioacchino Genchi, l'uomo che aveva indagato sulle talpe del Ros, sulla Guardia di finanza, sui servizi segreti, che raccontò ciò che accadde nel gruppo di Falcone e Borsellino, e che fino al 2009 aveva ricevuto annualmente un punto in più del massimo nelle gradutatorie della polizia, è stato destituito. Non aveva frequentato pregiudicati, non aveva mai pestato nessuno, non era accusato di traffico di droga, tantomeno era stato condannato in appello per omicidio. No. È stato destituito per altro, per un fatto ritenuto evidentemente assai più grave dei precedenti: aveva espresso un'opinione.

venerdì 10 giugno 2011

Continuerò a servire la Giustizia e la Verità

Continuerò a servire la Giustizia e la Verità

dal Blog di Gioacchino Genchi su "il fatto Quotidiano", 9 giugno 2011

Oggi, dopo 26 anni esatti, ho reindossato la toga di avvocato.

Alla cerimonia del giuramento, nell'aula della terza sezione della Corte d'Appelo di Roma, erano presenti numerosi fan e amici. Alla cerimonia ha pure voluto partecipare l'avv. Carlo Taormina, con cui collaboro ormai da due anni alla Cattedra di Procedura Penale, all'Università di Tor Vergata, tenendo un corso specifico su intercettazioni, tabulati e prove elettroniche, alla Scuola di Formazioni per le Professioni Legali.

Per me non cambia nulla, continuerò a servire la Giustizia e la ricerca della verità con lo stesso spirito con cui da oltre 20 ho lavorato a fianco di giudici e pubblici ministeri.

Mi sono iscritto all'Ordine degli Avvocati di Roma e con il mio staff stiamo già collaborando alla difesa in procedimenti penali molto complessi, a Roma, Milano, Catania e in altre parti d'Italia.

Ormai non c'è più un'indagine e un processo penale in cui non si disserti di cellulari, tabulati, celle telefoniche, e-mail e tracce elettroniche.

Penso di mettere a frutto, dopo tanti anni, l'esperienza maturata nel campo, anche se da oggi con ruolo diverso.

Ritorno a fare l'avvocato con un patrimonio di esperienze quasi unico.

Nelle indagini e nel processo penale ho ormai ricoperto tutti i ruoli. Prima di avvocato, poi di investigatore e poliziotto, poi di consulente e di perito.

In ultimo, per volere di qualcuno, ho rivestito pure il ruolo di indagato, di imputato e di parte civile.

Quelli che mi hanno voluto delegettimare, dal 2007 ad oggi, mi hanno costretto ad un corso di aggiornamento sul nuovo processo penale, che non conoscevo.

Per me è stato come rifare per la seconda volta il corso di laurea in giurisprudenza.

Adesso guardo al futuro con molto entusiasmo.

Cambiare vita e lavoro e 50 anni aiuta a sentirsi giovane.

Oggi, quando ho rimesso la toga, mi sembrava di essere ritornato a 25 anni fa.

martedì 7 giugno 2011

Gioacchino Genchi a Catania, venerdì 10 giugno 2011, ore 19:00

Venerdì 10 giugno 2011, alle ore 19:00, a Catania, al caffè/libreria Tertulia di Via Michele Rapisardi (zona Teatro Massimo) parteciperò alla presentazione del libro di Andrea Leccese "Torniamo alla Costituzione", Infinito Editore. Introduce Adele Palazzo, del Popolo Viola, sarà presente l'autore.

domenica 5 giugno 2011

Genchi assolto. La sentenza: ma quale spia? Ha agito egregiamente

Genchi assolto. La sentenza: ma quale spia? Ha agito egregiamente

da ANTIMAFIA Duemila, di Monica Centofante – 5 giugno 2011
C'era una volta "il più grande scandalo della storia della nostra Repubblica", l'uomo finito sulle prime pagine di decine di giornali ed esposto al pubblico ludibrio nei talk show televisivi perché aveva spiato ben 350 mila persone.


E c'è oggi una sentenza di assoluzione piena, perché il fatto non sussiste, depositata qualche giorno fa e che scagiona completamente quel mostro: non ha fatto nulla, scrivono i giudici, ha soltanto svolto il suo lavoro con estrema correttezza, collaborato con le procure, stanato delinquenti, contribuito a far scagionare innocenti. Ma sui giornali, questa volta, non ci è finito e nei talk show tutto tace: meglio che la pubblica opinione lo ricordi come il grande fratello intercettatore, chi teme le sue indagini preferisce così. E allora in pochi conosceranno la fine della storia, lei sì uno dei più grandi scandali della nostra Repubblica.
Il mostro è Gioacchino Genchi, consulente delle procure di mezza Italia, da almeno due decenni impegnato nelle più delicate inchieste del nostro Paese, a partire da quelle sulle stragi del '92 e del '93. La sentenza di assoluzione è quella del processo in cui era stato accusato di accesso abusivo al Siatel (Sistema Anagrafe Tributaria Enti Locali), un sistema informatico, protetto da misure di sicurezza, che garantisce il collegamento all'Anagrafe tributaria da parte degli enti locali: in sostanza mette in comunicazione diretta ed immediata l'ex Ministero delle Finanze, le Regioni e gli enti territoriali.
La nostra storia inizia il 1° settembre del 2004 , quando scompare nel nulla, a Mazara del Vallo, la piccola Denise Pipitone. Il pm Luigi Boccia, della Procura di Marsala, avvia le indagini e sceglie come consulente proprio Genchi, incaricato di procedere alla corretta identificazione di alcuni soggetti intestatari e utilizzatori delle numerosissime schede telefoniche emerse dall'acquisizione del traffico delle celle di Mazara del Vallo e del territorio circostante per l'intera giornata del rapimento della bimba. Oltre che dei migliaia di tabulati che nel giro di pochi mesi vengono acquisiti insieme a centinaia di intercettazioni telefoniche, perquisizioni e altre investigazioni non solo in Italia, ma anche all'estero. Perché i rapitori con tutta probabilità si sono spostati mentre aumentano le segnalazioni di avvistamento della minore da parte di sciacalli e mitomani che finiscono, anche loro, sotto indagine.
Con il fine di identificare i soggetti individuati nel corso delle investigazioni Genchi interroga l'archivio dello Sdi, in uso alle forze di Polizia e l'Anagrafe del Comune di Mazara del Vallo, che presentano però alcune lacune ed è a questo punto che Mario Bucca, responsabile per i servizi informativi del Comune, coinvolto emotivamente nella vicenda della scomparsa della piccola Denise, suggerisce al consulente la possibilità di un collegamento con il servizio tributi realizzato in via informatica dal Ministero delle Finanze proprio per le esigenze dei Comuni italiani: ovvero il Siatel. A stretto giro di posta Bucca abilita Genchi che inizia quindi a consultare il sistema trovandolo assolutamente efficace. Le indagini però non sono affatto semplici e si protraggono nel tempo, tanto che il 6 luglio del 2005 Genchi invia una mail a Bucca chiedendo ed ottenendo il rinnovo dell'abilitazione all'accesso al sistema Siatel. Nel frattempo, il consulente tecnico viene incaricato da altre procure d'Italia in altre delicate indagini: in particolare dalle procure di Palermo, Catanzaro, Roma, Reggio Calabria. Sono gli anni delle inchieste Poseidone e Why Not, quelle condotte su incarico dell'allora pm Luigi de Magistris e contro le quali, di lì a breve, si sarebbero scatenate una serie infinita di reazioni politiche e mediatiche.
Ai magistrati con i quali inizia a collaborare Genchi parla subito del sistema Siatel e i diversi uffici giudiziari, entusiasti per la sua potenzialità investigativa, autorizzano la richiesta di nuovo accesso.
Mentre il Procuratore nazionale antimafia Piero Grasso si fa promotore per ottenere un protocollo con la Siatel al fine di abilitare tutti gli uffici di polizia giudiziaria e tutte le procure per l'accesso a queste banche dati.
Genchi si rivolge quindi nuovamente al Bucca che gli dice di contattare gli addetti Siatel. E sono loro, una volta ricevuti i conferimenti incarichi delle Procure, a rispondere "che le comunicazioni sono inutili in quanto per loro, fin quando è titolare di una userid ha titolo per accedere".
Insomma, tutto ok e le indagini con le diverse procure proseguono e si fanno sempre più delicate mentre sui giornali inizia a montare la polemica sulle condotte investigative di de Magistris e dei suoi consulenti che porterà all'epilogo ormai noto. E quando la macchina del fango è in piena corsa a Gioacchino Genchi viene tolta l'abilitazione alla consultazione del sistema e il dottor Stefano Crociata, Direttore Centrale dell'Agenzia delle Entrate, parla di accesso e di utilizzo indebito della banca dati del sistema Siatel.
Le indagini del reparto tecnico del Ros di Roma, diretto dal colonnello Pasquale Angelosanto, giungono alle stesse conclusioni, accolte dalla Procura capitolina, detta anche "porto delle nebbie", che il 10 marzo 2009 iscrive Gioacchino Genchi nel registro degli indagati per accesso abusivo ad un sistema informatico e il giorno successivo emette decreto di perquisizione. I militari del Ros irrompono nell'abitazione palermitana del vicequestore aggiunto di Polizia e nei locali della sua società, la Csi, sequestrano computer e documenti, tra cui il sistema denominato Teseo, utilizzato da Genchi nell'espletamento degli incarichi di consulente e nel quale i militari del Ros troveranno – sorpresa! - i loro stessi nominativi. Il giorno dopo parte la bufala dei numeri: articolo dopo articolo, dichiarazione dopo dichiarazione il numero degli spiati sale fino a 7 milioni.
In sede processuale però è tutto diverso: all'imputato vengono contestate inizialmente 2600 interrogazioni abusive estese alle dichiarazioni dei redditi e ai redditi percepiti, che scenderanno rapidamente a 238 interrogazioni di persone fisiche e 8 di enti, aziende e persone giuridiche o imprese.
Nel frattempo, l'8 aprile 2009 il Tribunale del Riesame annulla il decreto di sequestro probatorio della Procura di Roma, secondo il documento non sussiste l'ipotesi di reato, ma la Procura si rifiuta sorprendentemente di restituire l'archivio e presenta ricorso alla Cassazione, che il 30 giugno ne dichiara l'inammissibilità e dà ragione al Riesame.
Le indagini contro Gioacchino Genchi intanto proseguono e nel marzo del 2011 l'imputato chiede ed ottiene il rito abbreviato. Arriviamo ai giorni nostri, precisamente al 13 aprile quando il Gup Marina Finiti è chiamata a pronunciarsi sull'imputato. Ed è lo stesso pm a chiederne l'assoluzione che il gup conferma dichiarando: il fatto non sussiste. Si è trattato soltanto di una gigantesca bolla di sapone.
"Per tutti i nominativi oggetto di contestazione – scrive il giudice nella motivazione della sentenza - l'imputato ha dimostrato, anche con allegati documenti informatizzati, di aver operato nell'ambito del conferimento incarico dei magistrati e dunque legittimamente". "Ha dimostrato puntualmente ed analiticamente per i diversi accessi contestati di aver fatto un uso legittimo dell'accesso al sistema Siatel, accesso cui era stato autorizzato dapprima dalla Procura di Mazara del Vallo per l'inchiesta sulla scomparsa di Denise Pipitone, in seguito anche da altre Procure italiane. Genchi – prosegue il documento – ha sempre operato nel rispetto dei mandati conferitigli, mantenendosi nei limiti fissati dai magistrati, senza mai travalicarli, condividendo con loro tutti i risultati dei riscontri negli eleboratori di consulenza".
Certo, ammette il giudice, un errore c'è stato: "L'autorizzazione all'accesso al sistema è stata erroneamente e irritualmente rilasciata al Genchi da Bucca, funzionario del Comune di Mazara del Vallo, in quanto avrebbe dovuto rilasciarla un amministratore del sistema in sede centrale".
Ma gli errori di un funzionario del sistema Siatel possono ricadere sul consulente? Ovviamente no, sottolinea il Gup Finiti, "non possono gravare sull'imputato, che tempestivamente risulta aver comunicato i conferimenti di incarico e le autorizzazioni di volta in volta rilascategli".Che colpa può avere il consulente?
Già, quale colpa? Ce lo chiediamo anche noi. Ma se si leggono le carte delle indagini a cui stava lavorando Gioacchino Genchi, improvvisamente bloccate, e fino a dove sarebbero potute arrivare la riposta non sembra poi così difficile.

venerdì 3 giugno 2011

Sorpresa: i cellulari dei politici li usano tutti

Sorpresa: i cellulari dei politici li usano tutti

AL PROCESSO GENCHI SI SCOPRE CHE LE UTENZE NON INTERCETTABILI VENGONO UTILIZZATE ANCHE DA ALTRI

di Antonio Massari, da "Il Fatto Quotidiano" del 3 giugno 2011

Avevano chiesto di interrogare direttamente Clemente Mastella, ma l'ex ministro di Giustizia s'è rifiutato, e così il 27 maggio gli avvocati Fabio Repici e Ivano Iai, difensori di Gioacchino Genchi, hanno sentito Francesco Campanella, l'uomo che fornì a Bernardo Provenzano la carta d'identità, per farsi operare a Parigi durante la latitanza.

È la testimonianza di Campanella, del quale Mastella fu testimone di nozze, la risposta "investigativa" di Genchi alle indagini del Ros dei Carabinieri e della Procura di Roma: che lo accusano di aver "trattato " illecitamente – oltre a quelle di otto parlamentari – l'utenza telefonica di Mastella. E quella di Campanella è soltanto una delle risposte: la difesa di Genchi ha prodotto tre documenti che – al di là del suo personale caso giudiziario – dovrebbero far riflettere parecchio.

Sono firmati dai segretari generali di Camera, Senato e Consiglio dei ministri.

La domanda è semplice: quanti cellulari, tra quelli intestati a Camera e Senato, erano effettivamente utilizzati dai parlamentari?

Il quesito si limita al periodo storico delle acquisizioni dei tabulati dell'inchiesta "Why Not" – aprile 2005, ottobre 2007 – ed ecco la risposta: "Le utenze mobili intestate all'amministrazione del Senato erano 292, più 183 per il solo traffico dati". "Delle 292 utenze gsm – continua il Senato – soltanto 5 erano assegnate a parlamentari". Il resto, ben 287, erano assegnate a "non parlamentari".

Se aggiungiamo che "un senatore era assegnatario di due utenze", il numero dei parlamentari scende a quattro.

E allora – sotto il profilo investigativo – la domanda è: basta l'intestazione, di un'utenza, al Senato – come sostiene il Ros – per "bloccare " il trattamento del traffico telefonico d'un telefono utilizzato invece, quasi con certezza, da un "non parlamentare"?

Più alta l'assegnazione alla Camera dei deputati: "Risultavano intestate alla Camera dei deputati 122 utenze cellulari. Di queste, 97 risultavano effettivamente assegnate agli stessi". Ma quante erano, in totale, le utenze intestate alla Camera? Ben 928 e solo 56 usate da deputati, scrive sempre la Camera, perché alcuni parlamentari erano assegnatari di più schede.

L'intestazione a Camera e Senato, quindi, non dà certezza che il telefono sia usato da un parlamentare. Ed è quello

che Genchi prova a dimostrare, per il caso Mastella, interrogando Campanella. Il "pentito" che aiutò Provenzano racconta l'iter politico che lo portò, dal 1999 in poi, a diventare segretario nazionale del Movimento giovanile dell'Udeur, "su designazione di Mastella" e "componente della direzione nazionale".

Campanella, i telefoni di Mastella, li conosce quindi molto bene, considerato il "rapporto di amicizia, anche con la moglie e i figli".

"Mastella – dice Campanella – aveva più utenze in uso e ha cambiato qualche volta, nel corso degli anni, il suo numero.

Tuttavia, ne aveva uno suo personale, sul quale lo contattavo. Quando non trovavo il parlamentare, contattavo il suo caposcorta, Stefano".

Il "pentito" spiega di aver contattato Mastella su ben altre utenze, diverse da quelle che Genchi e l'ex pm Luigi De Magistris hanno incontrato in "Why Not". Segno che, quella contestata, poteva non essere l'utenza strettamente personale dell'ex ministro.

È su altro numero, infatti, che nel 2005 Campanella invia l'sms di auguri per ferragosto.

Ed è sempre sullo stesso numero che lo contatta, in Sicilia, durante le elezioni amministrative dello stesso anno. Un numero che Mastella utilizza ancora oggi.

L'altra, quella contestata a Genchi, può ben essere tra le centinaia utilizzate dai "non parlamentari", come confermano le statistiche di Camera e Senato. E come conferma la presidenza del Consiglio, per i numeri – anch'essi contestati a Genchi e De Magistris – di Romano Prodi e Francesco Rutelli. Quella di Prodi era intestata alla Delta Spa e usata – verosimilmente – quando non era capo del governo e neanche deputato: l'utenza da premier, infatti, spiega la Presidenza del Consiglio era un'altra. Stesso discorso per Rutelli, che aveva a disposizione, scrive sempre il Consiglio dei ministri, ben due schede. Però diverse da quelle intestate alla Margherita, incontrate da Genchi .

Un mese fa, Giuseppe Pisanu, interrogato dalla difesa di Genchi aveva negato che l'utenza contestata dal Ros fosse sua. Fu un primo colpo all'accusa. E pare che non sia l'ultimo.

sabato 28 maggio 2011

Gioacchino Genchi a Rovato (Brescia), sabato sabato 18 giugno 2011


Sabato 18 giugno 2011, alle ore 20:30, a Rovato (Brescia), all'Area Foro Boario, parteciperò all'incontro sul tema
"Poteri criminali nella storia d'Italia"
nell'ambito della Festa Provinciale della Resistenza, organizzata dall'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia e dai giovani di Nuova Resitenza di Brescia.

venerdì 20 maggio 2011

Gioacchino Genchi e Savatore Borsellino a Inzago (Milano), sabato 21 maggio 2011

Sabato 21 maggio 2011, alle ore 21:00, a Inzago (Milano), presso il salone della Banca di Credito Cooperativo, in Piazza Maggiore, parteciperò con Salvatore Borsellino all'incontro dal titolo "COSA NOSTRA IN CASA NOSTRA? Le trattative Stato Mafia - Le stragi - La mafia al Nord".



giovedì 5 maggio 2011

Assolto Genchi, ma non per Bossio e Rinaldi


Assolto Genchi, ma non per Bossio e Rinaldi
L'autorizzazione del pm Luigi de Magistris ai Ctu, Genchi e Sagona, di trasmettere gli atti di Poseidone in Why Not
dal blog di Emilio Grimaldi, 5 maggio 2011

Vi ricordate il più grande scandalo della storia della Repubblica? Il famigerato Archivio di Gioacchino Genchi, il superconsulente di Procure di mezza Italia? Ecco, non c'è più. Assolto con la formula piena "perché il fatto non su sussiste". "Ha intercettato 350 mila persone", sentenziò Silvio Berlusconi. E di lì a ruota la macchina del fango. Ma c'è qualcuno, ancora, a cui piace lo scandalo. Ci è affezionato, per così dire. Forse un modo per esorcizzare gli scheletri che prendono forma negli attimi immediatamente prima di abbandonarsi tra le braccia di Orfeo. Forse. Vincenza Bruno Bossio, imprenditrice calabrese e membro della direzionale nazionale del Pd, per esempio, la sera se non posta sul suo blog un pezzo di Peppe Rinaldi, di Libero, proprio non riesce a dormire. Lo scandalo c'è ancora per questi due. Ahi voglia che ci sbattono il muso.
La sparata più grossa la dice lui e lei subito la condivide sul suo blog. E si tratta del "riversamento" degli atti di Poseidone in Why Not, le celebri inchieste per le quali Gioacchino Genchi è stato recentemente assolto per non aver eseguito i numerosi accessi abusivi al sistema informatico Siatel, l'anagrafe dei tributi locali dell'agenzia delle Entrate, paventati dal Ros. Lo stesso pubblico ministero di Roma che aveva formulato l'accusa ne ha richiesta l'assoluzione con la più ampia delle formule "perché il fatto non sussiste". No, il fatto c'è, ma non costituisce reato. Nemmeno il reato c'è, ma Genchi non l'ha commesso. Il fatto non sussiste, nel senso che non vi è mai stata alcuna condotta antigiuridica e Genchi non è mai venuto meno a nessuno dei suoi doveri nell'esercizio delle funzioni di consulente tecnico dell'Autorità Giudiziaria. Al difensore di Genchi, l'avv. Fabio Repici, non è rimasto che associarsi alle articolate conclusioni del P.M.. Dopo oltre tre anni di indagini, di clamori e di processi, al giudice per l'udienza preliminare sono bastati poco più di tre minuti di camera di Consiglio per pronunciare la sentenza: Genchi è assolto perché il fatto non sussiste. La stessa indagine riguarda un altro processo, ancora in corso, con l'accusa dei Pubblici Ministeri di Roma - già formulata a carico di Genchi e de Magistris dal famigerato procuratore aggiunto Achille Toro - di aver violato le guarentigie costituzionali che tutelano i parlamentari dall'acquisizione dei tabulati telefonici senza la preventiva autorizzazione della Camera di appartenenza. Dunque, decreta il Rinaldi che il "riversamento" dei tabulati di Poseidone nell'indagine Why Not, eseguito da Genchi, "non si può fare, se non dietro specifica autorizzazione" . È anche quello di cui lo accusa il Ros. Si dà il caso, però, che l'autorizzazione a Genchi e a Pietro Sagona, entrambi Ctu dell'allora pm Luigi de Magistris, gliela diede proprio il titolare delle indagini oggetto della presunta violazione. Il 2 aprile 2007 il pm così dispose: "rilevato che atti del procedimento penale originariamente trattati nel procedimento penale nr 1217/2005 debbono confluire nel fascicolo sopra indicato (numero 2057 del 2006, ndb) in quanto si sta delineando la configurabilità dell'associazione per delinquere oggetto di investigazione (…) dispone che i predetti consulenti tecnici trasmettano, nell'immediatezza in copia informatica, e successivamente in copia cartacea, gli elaborati da loro espletati nell'ambito del procedimento 1217/2005". Bene.
La ferve investigativa della coppia inedita non finisce qui. Beppe Pisanu fa delle dichiarazioni in merito al procedimento che lo vede parte lesa, secondo il Ros, insieme ad altri sette parlamentari, presunte vittime dell'orecchio troppo curioso del perito informatico. Il Fatto titola Pisanu scagiona Genchi, ma per il redattore di Libero è solo un incartamento del giornale.
L'ex ministro dell'Interno dice: "Quelle utenze telefoniche non sono mie. Riconosco esclusivamente quella contraddistinta dal n° 335 (…), in uso esclusivo a mia moglie Anna Maria. Delle altre (…) è certo che non si tratta di utenze in uso a me, né come utenze personali, né come utenze di servizio". Dunque, un'assoluzione prima ancora che si pronunci il giudice. Ecco, per Rinaldi e la Bossio non va bene. C'è qualcosa che al Fatto, che ha dato la notizia, è sfuggita. E cosa sarebbe? L'utenza della moglie di Pisanu. Leggiamo la ferve investigativa della coppia inedita. "Se il numero era intestato a Pisanu - come dice la consorte - e se di quel numero si discute, significa o no che il trattamento dei dati è stato fatto su quell'utenza? Parrebbe di si, rileva poco che l'uso era di persone non coperte dalle guarentigie. A quel numero, in pratica, corrispondeva un'anagrafica difficile da ignorare: resta poi un mistero (che dovrà accertare la procura di Roma) perché, pur essendoci quell'intestazione, accanto al tabulato veniva riportata quello della signora Ilari. Insomma, sarebbe bastata una richiesta di autorizzazione e tutto si sarebbe risolto, almeno in uno degli 8 casi contestati. 
A meno che non si voleva scoprire cosa facesse la moglie del ministro, che pure parlava al telefono con il "feroce Saladino", come tanti".
Andiamo con ordine. Il trattamento dei dati. Prima di trattarli bisogna individuarli, è logico. La semantica viene dopo. Una volta individuata l'utenza chi se ne occupa valuta il da farsi. Se proseguire o meno, a seconda dell'interesse investigativo che via via il "dato" trasmette e salvo prescrizioni in itinere. Nel caso di parlamentari si chiede l'opportuna autorizzazione e lo fa il pm. Al di là del fatto che sarà il giudice a stabilire se vi è stato o meno un accesso abusivo è di dominio pubblico la circostanza che le garanzie costituzionali si riferiscono solo ai parlamentari e non anche ai loro congiunti, e solo all'effettivo usuario della scheda telefonica. Se così fosse Emilio Fede, Lele Mora e Gabriel Minetti sarebbero stati scriminati sotto il grande ombrellone dell'immunità parlamentare di Berlusconi. Ma non è così. Però, per Rinaldi e Bossio basta l'identificazione per far vivo lo scandalo, così magari grazie a Genchi anche Berlusconi si riesce a difendere meglio dalle accuse dei Pubblici di Ministeri di Milano che, mutatis mutandis - ora ci vuole - non hanno fatto null'altro di quello che Genchi aveva fatto a Catanzaro. Peccato però, anche per la nuova inedita coppia Rinaldi-Bossio, che lo scandalo, tanto enfatizzato dal gennaio del 2009, si è via via sciolto come neve al sole, ma non per tutti, evidentemente. Ecco, allora, che la moglie di Pisanu ha avuto un contatto con il "feroce Saladino". Nulla dice di più, se ne guarda bene il Rinaldi. Per esempio, non dice che l'ex presidente delle Compagnie delle Opere voleva accattivarsi le grazie della moglie dell'ex ministro dell'Interno con un pensiero natalizio a febbraio del 2006. Forse. Pensiero tardivo, ma aveva le sue buone ragioni. C'era l'affare sul voto elettronico e Saladino non se lo voleva far scappare. Forse. Manda un sms al prefetto Vincenzo Corrias, caposegreteria di Pisanu, e poi pensa seriamente a un panettone, anche se è carnevale ormai. Per una signora d'eccezione. La signora non vuole riceverlo. Ma questo Rinaldi non lo dice. Come non dice nemmeno del fatto che nell'inchiesta Why Not l'interesse investigativo verteva sul deus ex machina, Antonio Saladino. E sul fatto che "chiedeva di entrare in associazione temporanea di impresa nel progetto di voto elettronico che sarebbe poi stato al centro della nota polemica scatenata dal settimanale Diario. Poi, Saladino e Corrias si sarebbero sentiti ancora. Ma la cosa non andò in porto perché, come da sempre sostiene Genchi, il ministro Pisanu non ha mai e in nulla concretamente favorito Saladino. In qualsiasi caso, a parte il singolare tentativo di Saladino di rifilare a carnevale un presunto regalo natalizio alla signora Pisanu, stavamo già lavorando a quanto verificatosi in quell'appalto. Quello gestito poi da Accenture, Telecom ed Eds, con la vicenda delle falle nel sistema apparse solo in un articolo di Repubblica", (da "Il caso Genchi, storia di un uomo in balia dello Stato" di Edoardo Montolli, pag. 844). Può darsi che Rinaldi, premuroso nell'evidenziare l'incartamento del Fatto, per fare mente locale abbia deciso di liberarsi, lui, di qualche carta. Giusto per fare ordine. Forse perché spalleggerebbe la tutela dello stesso ministro da tentativi subdoli di corteggiamento? Forse, ma soprattutto non va bene se si vuole alimentare la morbosità dello scandalo della moglie di Pisanu in contatto con il feroce Saladino.
Parte terza. All'udienza davanti al gup di Roma ci sta anche l'avvocato di Romano Prodi, la professoressa Paola Severino di Benedetto. Secondo l'accusa Prodi sarebbe pure lui presunta vittima di Genchi che, senza la preventiva autorizzazione al Parlamento, avrebbe acquisito i tabulati di un cellulare intestato alla Delta. Il paradosso è che ha ricostruito le varie fasi dell'inchiesta e ha sottolineato la correttezza dell'operato proprio di Genchi che si è, per giunta, sempre rifiutato di stilare una relazione ai fini della richiesta sollecitata dall'ex pm, Luigi de Magistris. A proposito il superconsulente spiega: "Se faccio qualcosa c'è sempre un motivo (per questo ho utilizzato le acquisizioni di Poseidone) e se non la faccio ce ne sono almeno due (per questo non ho ritenuto di redigere alcuna relazione a carico di Prodi, perché non c'era alcun elemento indiziario a suo carico, che io potevo rilevare dai tabulati)".
Meno due. Meno Pisanu e Prodi. Rimangono gli altri sei.
Dati e trattamento. Sempre che la Bossio o il Rinaldi non se ne escano poi con il teorema che acquisire i tabulati dell'usciere di Villa Certosa sia la stessa cosa del presidente del Consiglio. Magari potrebbe ricordarsi meglio di Berlusconi tutte le Ruby che sono passate da lì.
Potrebbe darsi. Il fatto è un altro. Sono in molti che a Roma, per le stesse condotte di Genchi e de Magistris, vorrebbero vedere alla sbarra i Pubblici Ministeri di Milano. E per questo che si soffia sul fuoco.

http://emiliogrimaldi.blogspot.com/2011/05/assolto-genchi-ma-non-per-bossio-e.html

Gioacchino Genchi a Savignano sul Rubicone (Forlì-Cesena), venerdì 20 maggio 2011

Venerdì 20 maggio 2011, alle ore 20:45, a Savignano sul Rubicone (Forlì-Cesena), nella Sala Allende, parteciperò all'incontro pubblico organizzato dall'A.N.P.I. e dal "Comitato Dossetti per la Costituzione" Zona Rubicone, dal titolo "Massoneria deviata - P2 - Servizi Segreti Deviati - P3 - P4. La Costituzione violata e la Democrazia sotto assedio".
Introduzione del giornalista Edoardo Turci. Saluti del Sindaco Elena Battistini. Premessa di Carlo Sarpieri, Presidente provinciale dell'A.N.P.I. e di Tonino Venturi, Responsabile del "Comitato Dossetti".
L'incontro è organizzato col patrocinio dei Comuni di Savignano sul Rubicone, San Mauro Pascoli e Gatteo.

domenica 1 maggio 2011

Gioacchino Genchi a Cesenatico (Forlì), domenica 1° maggio 2011

Domenica 1 maggio 2011, alle ore 18:30, a Cesenatico (Forlì), nella Sala del museo della Marinella in Via Armellini 18, Porto Canale Cesenatico, parteciperò all'incontro organizzato dall'Italia dei Valori sul tema "Mafia e intercettazioni: dall'Italia alla Romagna".
Modera Marco Colonna, Direttore del Quotidiano del Nord.it. Introdurranno Salvatore Nestola e Tommaso Montebello, Coordinatori dell'IDV di Cesenatico e di Forlì.

giovedì 28 aprile 2011

PISANU SCAGIONA GENCHI

PISANU SCAGIONA GENCHI

L'ex ministro ai pm: "Quelle utenze telefoniche non sono mie"

di Antonio Massari, da Il Fatto Quotidiano di giovedì 28 aprile 2011, pag. 1

"Non sono le mie utenze telefoniche". Bastano queste poche parole, pronunciate pochi giorni fa dal presidente della commissione Antimafia Giuseppe Pisanu, a demolire le basi del "più grande scandalo della storia della Repubblica". Fu con queste parole che, nel 2009, Silvio Berlusconi definì Gioacchino Genchi. Parliamo del consulente informatico che lavorò con Giovanni Falcone, che s'è occupato delle stragi di Capaci e via D'Amelio e che oggi sarà in tribunale, a Roma, per la sua prima udienza da imputato: l'accusa è di concorso in abuso d'ufficio, con l'ex pm Luigi De Magistris, per aver acquisito illegalmente, nell'inchiesta Why Not, i tabulati di otto parlamentari. "Il più grande scandalo della storia della Repubblica", a partire da oggi, rischia però di ribaltarsi. C'è una sorpresa firmata dal presidente della commissione Antimafia, Giuseppe Pisanu, che in un verbale d'interrogatorio scagiona totalmente Genchi. E rovescia l'impianto accusatorio firmato da un'informativa del Ros dei carabinieri.

TRA LE UTENZE telefoniche indebitamente "trattate" da Genchi – sostiene il Ros – c'è anche quella di Pisanu. Interrogato dagli avvocati di Genchi, nel corso delle indagini difensive, Pisanu smentisce categoricamente: nessuna delle utenze appartiene a lui. A questo punto, lo "scandalo" è l'approssimazione delle indagini che hanno portato Genchi in un ciclone di accuse infondate. Quando gli avvocati Ivano Iai e Fabio Repici elencano i cinque numeri di telefono – quelli che Genchi avrebbe illegittimamente acquisito e processato – Pisanu non ha dubbi: "Riconosco esclusivamente quella contraddistinta dal n° 335 (…), in uso esclusivo a mia moglie Anna Maria. Delle altre (…) è certo che non si tratta di utenze in uso a me, né come utenze personali, né come utenze di servizio". Quattro righe che smontano un castello d'accuse inviate, il 16 giugno 2009, all'ex procuratore aggiunto di Roma, Achille Toro, e ai pm Nello Rossi, Andrea de Gasperis e Maria Cristina Palaia. Secondo il Ros, non solo Genchi avrebbe acquisito i dati di Pisanu, ma avrebbe nascosto il suo intento al pm: "Tutti i riferimenti a "Giuseppe Pisanu"e al "ministero dell'Interno" vengono accuratamente omessi da Genchi nella relazione al pm". Il Ros precisa che per un'utenza, che Genchi indica appartenere a Stefania Ilari, nella rubrica sequestrata ad Antonio Saladino, l'unica indicazione era riferita, invece, proprio a Pisanu. È quella della moglie di Pisanu, Anna Maria, che non è soggetta alle guarentigie e anche per il Ros non sarebbe stato difficile accertarlo. Il Ros si limita invece a rilevare che, già dall'agenda di Saladino, i numeri dei telefoni risultavano riconducibili a Pisanu. Anche quella che Genchi ritiene intestata a Stefania Ilari che, nella rubrica di Saladino, viene nominata in questo modo "Pisanu Am*". Né la "A" né la "M" corrispondono alle iniziali di Pisanu. E infatti si tratta di sua moglie. Ma stranamente il Ros – che ha scandagliato le utenze dello staff e della famiglia di Pisanu – questo "dettaglio" non riesce a scoprirlo. Anzi scrive: "Genchi utilizzava solo le risultanze dell'utenza di Stefania Ilari", evitando di associarla al senatore Giuseppe Pisanu, intestatario di tale utenza sin dal 2001. Stefania Ilari era stata intestataria del numero telefonico tra il 1998 e il 2000, annota sempre il Ros, mentre dal 2001 viene intestata a Pisanu. E quindi: "Appare evidente che l'indicazione di tale nominativo – Stefani Ilari –, ormai privo di significato, ha avuto come unico effetto quello di evitare il diretto riferimento del tabulato al senatore della Repubblica Giuseppe Pisanu, nella richiesta che andava autorizzata al Parlamento".

LA STORIA – alla luce delle dichiarazioni del diretto interessato – Giuseppe Pisanu – va completamente riscritta. A cominciare dal motivo che porta Genchi e de Magistris a incontrare, nell'ambito di Why Not, l'ex ministro dell'Interno. I motivi sono due. Il primo: un sms tra il principale indagato in Why Not, Antonio Saladino (poi condannato a due anni di reclusione per abuso d'ufficio) con il prefetto (…) Corrias: "Adecco-Eda partecipano a una gara per il voto eletronico vor entrare in Ati con Why Not". Vincenzo Corrias lo rintraccia in breve tempo: "Ti chiamo io fra poco, Tonì ". A giudicare dallo sms, Saladino chiede a Corrias di entrare nell'affare che riguarda il progetto di voto elettronico. L'affare non andò in porto. Ma Genchi e De Magistris indagano sull'interesse di Saladino che, di lì a poco, chiama una signora per portarle un "pensierino natalizio". C'è un fatto strano: il regalo di Natale vuole consegnarlo a febbraio inoltrato. E la signora usa il telefono che, lo stesso Saladino, ha nominato così: "Pisanu A M * ". È la moglie di Pisanu che, peraltro, farà di tutto – come dimostra Genchi – per non incontrare Saladino e per non ricevere il "regalo", trattandolo con ostentata freddezza.

Interrogato dai pm è lo stesso Genchi a spiegare: "Sono stato io a impartire ai miei collaboratori gli approfondimenti sulle utenze dei familiari, dei collaboratori e dei figli del senatore Pisanu, proprio per le risultanze che erano emerse dall'indagine Poseidone a proposito dell'affidamento del voto elettronico e a un probabile tentativo di estorsione, posto in essere con una campagna di stampa mistificatoria, anche in danno del senatore Pisanu, sui rischi per la democrazia del voto elettronico (…), del tutto assurdi ed infondati, frutto di autentiche mistificazioni". Nessuna omissione ai pm. Semplicemente: Genchi non chiede l'acquisizione dei tabulati di Pisanu.

Il motivo: non c'è interesse investigativo.

Al limite, l'ex ministro, era vittima d'una campagna di stampa mistificatoria che, sottolinea Genchi, non riguardava l'inchiesta di Enrico Deaglio, pubblicata in perfetta buona fede da Diario, ma l'intento delle fonti che l'avevano sollecitata. Infine, conclude Genchi, "nei confronti di Pisanu avevo e ho una profonda stima e ammirazione per il coraggio con il quale mi ha difeso in Parlamento nel 2004 quando, nel frangente delle indagini sul presidente della regione Sicilia Totò Cuffaro e sulle talpe nel ROS ed alla DDA di palermo sono stato oggetto di un durissimo attacco da parte degl amici di Cuffaro".

Fu altro – come spiega a Edoardo Montolli, nel libro intervista "Il caso Genchi" – a smuovere l'interesse investigativo. E cioè: "Il fatto che il numero di cellulare che usava suo figlio Gianmario (…) e che era riportato alla voce Gianmario Pisanu su ben quattro agende di Saladino, era intestato fin dal 2001 proprio alla Accenture spa". Cos'è la Accenture spa? "L'azienda che realizzò, insieme a Eds e Telecom, l'appalto del voto elettronico. La stessa azienda nei confronti della quale erano state dirette le attenzioni di chi aveva innescato la campagna di delegittimazione che coinvolgeva finanche il ministro".

GENCHI oggi dichiara: "Ho sempre avuto fiducia nella giustizia e nelle istituzioni dello Stato. Oggi la mia fiducia viene ripagata da un uomo dello Stato che ha anteposto la verità alle logiche della politica, al contrario di come hanno fatto altri politici che ancora vorrebbero far credere di rappresentare l'alternativa a Silvio Berlusconi".

"Una vicenda d'enorme rilievo per le istituzioni democratiche", commentò Francesco Rutelli, all'epoca presidente del Copasir (Comitato parlamentare per la sicurezza), che definì l'attività di Genchi "un vero e proprio pedinamento elettronico sistematico".