mercoledì 31 ottobre 2007

30-10-2007 - Quando sono le sentenze a parlare: estratto della sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta nel processo “Borsellino bis”

I giudici della Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta – che hanno condannato i boss ed i gregari di Cosa Nostra, che hanno contribuito all’eliminazione del Giudice Paolo Borsellino - così scrivono del contributo fornito dal dr. Gioacchino Genchi alle indagini sulla "strage di Via Mariano d'Amelio", del 19 luglio 1992.
E' appena il caso di ricordare, a chi non lo sapesse, che la sentenza della Corte d'Assise d'Appello di Caltanissetta, è stata integralmente confermata dalla Suprema Corte di Cassazione, rendendo definitive le condanne all'ergastolo per molti imputati, che erano stati assolti nel giudizio di primo grado.
Questa non è la patologia ma la fisiologia della Giustizia, che solo grazie al corretto contributo di Giudici indipendenti, Pubblici Ministeri, Avvocati, inquirenti e consulenti onesti, si riesce a realizzare in uno Stato democratico, che propugna l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Oggi, grazie anche al principio costituzionale che vuole che la GIUSTIZIA sia amministrata in nome del POPOLO, riusciamo a leggere queste parole da una sentenza, che ha scritto in modo definitivo una parte sostanizale della storia del nostro Paese, di cui il dr. Giaocchino Genchi è stato - senza volerlo - un modesto protagonista.
Nella misura in cui GIUSTIZIA è uguale a VERITA', verità vuole che queste parole siano note, anche anche a chi vorrebbe far finta di non conoscerle
:

… Le testimonianze del dr. Gioacchino Genchi e della dr.ssa Rita Borsellino hanno offerto non soltanto contributi determinanti per la ricostruzione della fase dell’intercettazione abusiva ma anche indicazioni di notevole rilevanza su ciò che potrebbe essere stato realisticamente l’intervento di soggetti esterni su Cosa nostra.
Due contributi che pongono in termini realistici e costruttivi una possibile linea di indagine sulle questioni tuttora insolute nella ricostruzione giudiziaria ma anche ormai storica della strage di via D’Amelio: le ragioni dell’improvvisa accelerazione nella esecuzione dell’attentato; le finalità cui mirava l’organizzazione con la realizzazione in quel tempo in quel luogo e in quel modo della strage; se quali e da chi fossero state offerte garanzie ai vertici dell’organizzazione in relazione alla prosecuzione della strategia stragista; se e quali apparati dello Stato sapevano dell’imminente nuova strage ed omisero di intervenire per impedirla o addirittura assecondarono gli esecutori mafiosi nel perseguimento di proprie finalità deviate.
Sul punto tanto il dr. Genchi che la dr.ssa Borsellino hanno fornito utili e inquietanti indicazioni convergenti con le affermazioni dei più importanti collaboratori di giustizia (Cancemi, Brusca, Siino, Pulci ).
Il dr. Genchi ha riferito che a partire dall’ipotesi dell’intercettazione telefonica e quindi dalla necessità di individuare il luogo in cui veniva dirottata la telefonata intercettata, certamente nell’area servita dall’armadio di zona Falde, e dal rilievo che il gruppo criminale operante avrebbe potuto operare in modo più efficiente se avesse potuto disporre nello stesso punto del ricevitore nel quale venivano deviate le telefonate intercettate e del punto di osservazione per cogliere il momento in cui dare l’impulso all’esplosivo, aveva individuato questo luogo nel castello Utveggio situato sul Monte Pellegrino, alle spalle della via D’Amelio, dal quale si dominava perfettamente la vista sull’ingresso dell’abitazione di via D’Amelio.
Il momento più inquietante di questa testimonianza consisteva nel resoconto sull’identificazione di chi avesse la disponibilità di questo luogo: organi dei servizi di sicurezza interna.
Il dr. Genchi ha chiarito che l’ipotesi che il commando stragista potesse essere appostato nel castello Utevggio era stata formulata come ipotesi di lavoro investigativo che il suo gruppo considerava assai utile per ulteriori sviluppi; essa tuttavia era stata lasciata cadere da chi conduceva le indagini al tempo. Il dr. Genchi esponeva tutti gli elementi sulla cui base quella pista era stata considerata tutt’altro che irrealistica:
La testimonianza di un agente DIA che si era trovato a fare da autista a Borsellino subito dopo l’interrogatorio di Mutolo, lo aveva trovato sconvolto e gli aveva sentito pronunciare nel corso di una conversazione telefonica la frase “ Adesso noi abbiamo finito. Adesso la palla passa a voi “. Le telefonate erano dirette verosimilmente al Procuratore Vigna e al procuratore Tinebra che aveva appena iniziato a indagare su Capaci.
Essendo stato, nel frattempo, individuato Scotto Pietro come autore di lavori non autorizzati sulla linea telefonica del palazzo di via D’Amelio, si era accertata la sua collocazione nell’ambito della rete mafiosa della città di Palermo. Era quindi emerso il nome del fratello, Gaetano Scotto, importante boss appartenente al mandamento nel territorio del quale era avvenuta la strage.
L’analisi del tabulato delle telefonate di Gaetano Scotto aveva evedenziato un contatto di qualche mese prima proprio con l’utenza del Castello Utveggio.
Nel castello aveva sede un ente regionale il C.E.R.I.S.D.E., dietro il quale avrebbe trovato copertura un organo del SISDE. La circostanza era stata negata dal SISDE che aveva così esposto ancor più gli uomini del gruppo investigativo costituito per indagare sull strage. Ma Genchi è stato molto risoluto nell’affermare che la struttura SISDE aveva abbandonato il castello Utveggio proprio nei giorni in cui su quel luogo si era appuntata l’attenzione degli investigatori.116
La scomparsa dell’agenda del dr. Borsellino.
La prova che un’utenza telefonica clonata, in possesso di sanguinari boss mafiosi, avesse in prossimità del 19 luglio chiamato dei villini che si trovavano lungo il percorso che l’auto di Borsellino aveva percorso quella domenica nonché il numero dell’Hotel Villa Igea, che si trovava in prossimità di via D’Amelio, nel quale soggiornavano latitanti mafiosi.
Ancora chiamate dal medesimo telefono ad utenze del SISDE, non declinate in precedenza, che si incrociavano con utenze cellulari che la domenica avevano chiamato ancora una volta le utenze di villini ubicati in prossimità della zona dalla quale Borsellino era partito. ...

… Queste piste investigative verso una possibile regia esterna alla manovalanza mafiosa furono bruciate dalla decisione di procedere al fermo di Pietro Scotto che il dr. Genchi ha giudicato intempestiva. D’altra parte questo “soccorso” esterno che si sospettava potesse essere stato offerto ai manovali del crimine non implicava che l’intercettazione dovesse essere eseguita con metodi più professionali di quelli ipotizzati nella consulenza tecnica. L’intercettazione doveva essere necessariamente rudimentale; proprio questo carattere metteva in evidenza che non era stata affidata a professionisti raffinati. Ciò confermava la rigida divisione dei ruoli tra la squadra mafiosa e l’ipotizzato supporto esterno …

… L’assoluta rilevanza del contributo del dr. Genchi è quindi evidente perché esso arricchisce il quadro, sebbene a livello di ipotesi investigativa fondata su elementi indiziari oggettivi; dà un senso ai persistenti vuoti di conoscenza, senza intaccare in alcun modo la tenuta della ricostruzione dell’attentato nelle fasi che è stato possibile far emergere con l’aggancio dell’anello debole Scarantino, il contributo del quale, pur avendo permesso di penetrare in profondità nella trama connettiva del delitto, ha pur sempre i limiti della marginalità del suo ruolo e della sua personalità.
Anzi, in base alla ricostruzione del dr. Genchi ( v. nota 109 ), si deve escludere che la plausibile ipotesi del sostegno esterno si sia potuta estrinsecare in un apporto diverso da quello logistico-informativo. L’ intervento materiale di supporto di questi elementi esterni, in base a tale interpretazione, non sarebbe stato affatto autonomo ma si sarebbe inserito in un’azione materiale, condotta in prima battuta e sul piano dell’esposizone materiale, dagli uomini dell’organizzazione mafiosa.
In questo senso sembra alla Corte doversi univocamente intendere il contributo del dr. Genchi e il suo riferimento al rinvenimento sulla montagna di Capaci di un bigliettino con un numero telefonico che riconduceva al SISDE e tutte le sue ulteriori successive indicazioni sull’esigenza di approfondire le indagini sul c.d. terzo livello, esigenza ostacolata dai vertici dell’amministrazione e che portò all’estromissione del dr. Genchi dalle indagini sulle stragi e all’inatteso trasferimento del dr. La Barbera al ministero nell’ottobre del 1992.118
Da quella data la partecipazione del dr. Genchi alle indagini era potuta proseguire solo nella veste di consulente dei pubblici ministeri e poi, di nuovo, con la costituzione del gruppo investigativo Falcone-Borsellino, nel quale si erano peraltro verificate divergenze di opinioni e contrasti di valutazione al suo interno e con i magistrati, in seguito ai quali il dr. Genchi aveva abbandonato definitivamente le indagini.
Il discorso del dr. Genchi, rileva ai fini della dimostrazione che l’intervento di istanze esterne a Cosa nostra rappresenta un’ ipotesi ammissibile e inquietante che non contraddice il quadro di riferimento di fondo. Tale impostazione presuppone da un lato la piena operatività delle squadre di Cosa nostra, secondo quanto fin qui emerso, e dall’altro l’esistenza di soggetti interni a Cosa nostra che costiuiscono i referenti delle predette istanze. Tali referenti non hanno alcuna corrispondenza con i ruoli e i gradi ufficiali dell’organizzazione, e costituirebbero quasi una sorta di servizio segreto interno collegato con quello esterno; ciò che giustifica il fatto che uomini come Brusca vedono operare ( e operano essi stessi ) in prima persona uomini di Cosa nostra e ignorano e anzi tendendo ad escludere l’operatività di questa rete “esterna” che invece plausibilmente, alla luce delle indicazioni di Genchi, incombeva sui “manovali” di Cosa nostra che dal loro canto operavano secondo la propria logica. Una razionalità che potrebbe però essere stata funzionale ad un altro ben più complesso disegno.
Questa situazione implica una triangolazione che il dr. Genchi ha così raccontato con riferimento a tutte le possibili inesplorate ipotesi investigative …

… In questo senso depone univocamente la deposizione del dr. Genchi. Egli ha riaffermato, pur introducendo il tema delle inquietanti ipotesi investigative abortite di cui è stato protagonista, che la strage venne compiuta con l’ausilio di un’intercettazione telefonica rudimentale, eseguita da Pietro Scotto per conto di Gaetano Scotto, cessata “ o poco prima o poco dopo il collocamento” davanti al 19 di via D’Amelio dell’autobomba rubata da Scarantino, seguita da un pedinamento a vista, supportato da una rete di telefonate informative che produsse, lungo la strada da Carini a Palermo, nella giornata del 19 luglio, un intensissimo traffico telefonico, cessato del tutto nelle giornate e nelle domeniche successive, avviata quando si venne a scoprire che il dr. Borsellino non sarebbe andato in via D’Amelio la mattina del 19 luglio ma che vi si sarebbe dovuto comunque recare entro quel giorno perché così indicavano con certezza le telefonate intercettate fino alla sera precedente …

… Dalla testimonianza di Rita Borsellino abbiamo invece acquisito un aggiuntivo prezioso contributo per comprendere le ragioni dell’accelerazione della strage, legata all’impulso inatteso che Paolo Borsellino aveva impresso alla sua attività istituzionale dopo la strage di Capaci.
Contro la sua volontà tale attivismo l’aveva proiettato alla ribalta massmediatica e della scena politica nazionale. Ma tale sovraesposizione, in parte inevitabile dopo Capaci, essendo storicamente il suo ruolo e la sua personalità associati a quella di Giovanni Falcone del quale aveva condiviso la storia professionale e le scelte più significative nell’azione di contrasto a Cosa nostra, si accrebbe, in modo a dir poco imprudente, per tutta una serie di iniziative assunte senza l’assenso del dr. Borsellino, la più clamorosa delle quali la sua candidatura alla direzione della nascente Procura nazionale antimafia da parte dei ministri Martelli e Scotti.
Il dr. Borsellino visse drammaticamente il periodo tra Capaci e la sua morte, stretto tra l’ovvia esigenza di reagire alla strage con un supplemento di impegno personale, la conoscenza di fatti ed il maturare di eventi che lo inducevano a pensare che la morte di Falcone fosse stata l’esito di spinte eterogenee, non tutte interne all’organizzazione mafiosa, e quindi la consapevolezza che il gioco fosse assai più complesso e pericoloso per essere giocato e vinto dalla semplice posizione di procuratore aggiunto di Palermo e che qualcuno stesse veramente giocando con la sua vita, secondo quando ha rivelato il tenente Canale: Borsellino, saputo della sua candidatura alla Procura antimafia da parte dei ministri, commentò che quel gesto equivaleva a “mettere gli ossi davanti ai cani”.
Da qui l’impegno investigativo a tutto campo, soprattutto nel settore “sensibile” della connessione mafia-politica, costituito dagli appalti pubblici che dal tempo di Siino Cosa nostra aveva utilizzato non solo per ricavare proventi ma soprattutto per sedere al tavolo per trattative di ben più ampio respiro.
Se, come aveva preconizzato lo stesso Paolo Borsellino, egli sarebbe stato davvero in pericolo solo se fosse morto Giovanni Falcone, dopo quest’evento egli si sentì veramente esposto all’attacco mafioso; il magistrato sentiva il precipitare degli eventi e cercò di reagire a suo modo. Di questa reazione ha dato conto la dr.ssa Rita Borsellino che ha descritto la convulsa solitudine in cui visse Paolo Borsellino in quelle sue ultime settimane di vita, le trappole che gli vennero più o meno consapevolmente tese e la consapevolezza degli stessi familiari degli enormi pericoli che si stavano addensando sul suo capo, senza che nessuno si preoccupasse di coglierli e prevenirli, secondo una storia che si ripete.
Dopo il 23 maggio, ha detto, Paolo Borsellino era stato travolto da una valanga di impegni di lavoro e straordinari. La sua vita non era mai stata abitudinaria e lo fu ancor meno dopo quella data.
La preoccupazione dei familiari per l’incolumità di Paolo non era insorta quel 23 maggio; era risalente ed in un certo senso immanente nell’esistenza di queste persone. Paolo ne parlava sin dai tempi del maxiprocesso, quasi per esorcizzare il pericolo; ma ne parlava con una sorta di fatale rassegnazione. Piuttosto estendeva le sue preoccupazioni anche ai suoi familiari.
Paolo Borsellino aveva più volte comunicato alla sorella la sua opinione che in molti omicidi eccellenti vi fosse assai più della sola mafia….

… Tale quadro d'obiettiva consistenza della tesi dell'avvenuta manipolazione del sistema di comunicazione telefonica fisso della famiglia Fiore-Borsellino si ancorava fra l'altro al giudizio espresso dal consulente tecnico Genchi in ordine alla effettiva messa in atto di siffatto stratagemma: le riferite anomalie dell'impianto telefonico da un lato, e la verifica sull'impianto eseguita dal medesimo consulente, inducevano quest'ultimo a propendere per un apprezzamento in termini
d’elevatissima probabilità in ordine ad un'attuata intercettazione telefonica abusiva.
Operazione, questa, la cui materiale realizzazione doveva considerarsi senza dubbio alla portata delle competenze tecniche facenti capo a Scotto Pietro, il quale, del resto, era stato fatto oggetto, ad opera dei testi oculari, di un inequivoco, duplice, riconoscimento come la persona notata …

… In conclusione, non vi è ragione di ricorrere a mandanti occulti o ad un terzo livello per ammettere che nei grandi delitti di mafia esistono complicità e connivenze che il sistema non riesce ad individuare e a portare alla luce per tutta una serie di ragioni che qui non è necessario affrontare ma che sono peraltro note e fanno parte del problema più ampio delle ragioni e condizioni, studiate da altre discipline, che rendono strutturalmente basso il livello di legalità complessivo del nostro Paese.
Ma detto questo, e richiamando quanto in questo processo ha avuto modo di dire il dr. Genchi sui condizionamenti e i veri e propri divieti opposti a quanti all’interno degli apparati pubblici agivano con l’esclusivo intento di ricerca della verità, e nel caso di specie all’indagine su tracce e dati che riconducevano ad un sostegno logistico ed informativo al commando mafioso di non identificati soggetti appartenenti ad apparati pubblici, non sussiste il minimo dubbio che il delitto di via D’Amelio sia stato deliberato dal gruppo dirigente del tempo di Cosa Nostra ed eseguito dai capi mandamento incaricati che si sono avvalsi degli elementi migliori e di maggior fiducia di cui disponevano al tempo. …

… E’ agli atti, prodotta dalla difesa, una inquietante lettera del 7 dicembre 1992 del dr. Genchi indirizzata al questore Cinque e da questi trasmessa alla procura della Repubblica di Caltanissetta, nella quale il valente funzionario esprime tutto il suo rammarico per l’isolamento nel quale era venuto a trovarsi all’interno della sua amministrazione dopo avere accettato l’incarico di consulenza sui c.d. “diari di Falcone”, per le fughe di notizie deformate, provenienti dall’interno dell’amministrazione, per le censure che dalla stessa amministrazione gli erano pervenute per il modo di indagare prima e per avere accettato poi di collaborare lealmente e senza restrizioni con l’autorità giudiziaria, appunto in veste di consulente indipendente. La lettera, in risposta ad un sollecitazione del questore a predisporre misure di “autotutela personale” , si chiude con l’inquietante comunicazione essere la miglior misura di autotutela l’accurata conservazione di appunti, scritti, risultati di indagini. …

… E’ agli atti, prodotta dalla difesa, una inquietante lettera del 7 dicembre 1992 del dr. Genchi indirizzata al questore Cinque e da questi trasmessa alla procura della Repubblica di Caltanissetta, nella quale il valente funzionario esprime tutto il suo rammarico per l’isolamento nel quale era venuto a trovarsi all’interno della sua amministrazione dopo avere accettato l’incarico di consulenza sui c.d. “diari di Falcone”, per le fughe di notizie deformate, provenienti dall’interno dell’amministrazione, per le censure che dalla stessa amministrazione gli erano pervenute per il modo di indagare prima e per avere accettato poi di collaborare lealmente e senza restrizioni con l’autorità giudiziaria, appunto in veste di consulente indipendente. La lettera, in risposta ad un sollecitazione del questore a predisporre misure di “autotutela personale” , si chiude con l’inquietante comunicazione essere la miglior misura di autotutela l’accurata conservazione di appunti, scritti, risultati di indagini. …

... Scarantino aveva pure parlato di una intercettazione telefonica da parte di un telefonista che aveva un parente o fratello uomo d’onore “appartenente ai Madonia”; anche del telefonista Scarantino non aveva fatto il nome mentre il nome di Scotto era stato riferito dalla Scarantino allorché aveva parlato di quest’uomo di fiducia dei Madonia. Puntuale e straordinariamente riscontrato dal teste dr. Genchi il riferimento che Scarantino gli aveva fatto all’intercettazione eseguita “tramite le cabine telefoniche poste sulla strada” e all’abitualità con la quale Scotto eseguiva quei servigi per conto di Cosa nostra. ...

... Alla luce di quanto dichiarato dal dr. Genchi e di quanto riferito dagli altri collaboratori di giustizia delle cui dichiarazioni si è detto appare del tutto chiaro come queste ultime indicazioni di Andriotta finiscano con il fornire una robusta conferma di attendibilità per Scarantino, con il rafforzare per la reciproca convergenza l’attendibilità intrinseca di entrambi e quindi anche con il provare l’effettività dell’intercettazione. ...

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