martedì 23 febbraio 2010

Il giorno dell'ipocrisia nel porto delle nebbie

Il giorno dell'ipocrisia nel porto delle nebbie

di Giuseppe Davanzo, da la Repubblica del 23 febbraio 2010

SOLITAMENTE discreto, il procuratore di Roma Giovanni Ferrara decide di prendere la parola in pubblico. È già un errore. Conviene sempre che per i magistrati parlino i fatti. Nella carne viva di un'istruttoria o di un processo, poi è doveroso che quei fatti siano offerti soltanto nei luoghi deputati: l'udienza, l'aula. Gli argomenti che il Procuratore adopera peggiorano il quadro. Ferrara non trova il coraggio o l'umiltà di dirsi almeno addolorato per quanto è accaduto nel suo ufficio e a se stesso. Ha scelto incautamente per il governo del dipartimento dei reati contro la pubblica amministrazione una toga rivelatasi infedele, Achille Toro.

Achille Toro, si scopre, sopisce, tronca le indagini e - si scopre - addirittura spiffera agli indagati gli esiti che incuba lo scandalo della Protezione civile. Un buon motivo per rammaricarsi in pubblico della sua infelice preferenza; rassicurare della incorruttibilità degli altri pubblici ministeri; impegnarsi a comprendere che cosa e perché non è andato per verso giusto, come cambiare pagina. Ferrara non si cura di questo. A Toro, alla criticità che il suo comportamento apre nella sua procura, Ferrara non sembra interessato. Prende la parola per un altro sorprendente lavoro da sbrigare: biasimare le mosse della procura di Firenze, demolire la correttezza di un'inchiesta che scuote il mondo politico e il governo mentre svela le abitudini combriccolari che si nascondono dietro la "politica dell'emergenza".

Il suo argomento è diabolico: quei pubblici ministeri non erano "competenti". Dovevano astenersi da fare alcun passo perché i reati ipotetici sono stati commessi a Roma e la procura della Capitale è la sola abilitata a procedere. È una denuncia radicale: quell'inchiesta è illegittima e forse addirittura illegale. Ferrara sa che, sopravvissuto alla caduta della dittatura e confusamente accomodato dal legislatore, il nostro codice fornisce "un terreno di cultura ideale ai contrasti ideologici degli operatori". C'è un luogo delegato per risolvere queste controversie ed è la Corte di cassazione. È la strada che, sollevando una polemica pubblica e alquanto artefatta anche nel merito, Ferrara non imbocca. Vuole una polemica politica. La sollecita. Preme per gettare discredito su Firenze annientando un lavoro politicamente sensibile. La sortita dell'alto magistrato, con quel silenzio sulle malefatte di Achille Toro e con lo strepito contro l'altra procura, ravviva in un colpo solo il dubbio e la confusione che circondano da molto tempo la procura di Roma. Ufficio spesso quietista, qualche volta affetto dal morbo del conformismo, quasi intimidito dalla propria indipendenza.

Quel "morbo", annotava Piero Calamandrei, non è altro che un'ossessione, che non attende le raccomandazioni esterne, ma le previene; che non si piega alla pressione del potere, ma se l'immagina e la soddisfa in anticipo. Spesso i meccanismi intellettuali, le atmosfere emotive, le solidarietà corporative che si scorgono nell'ufficio di Ferrara appaiono affette da quella malattia e le parole arroganti sembrano rivendicare quella antica, bizzarra, discutibile pretesa - quasi castale - della procura di Roma di essere il foro penale precostituito per i Potenti: dovunque delinquano, Roma loquitur. Come accadeva - ricorda Franco Cordero - nella Francia ancien régime dove "si chiamavano Committimus le lettere grazie a cui date persone, schivando le solite giurisdizioni, adivano una corte sovrana".

C'erano dunque, al mattino, già buone ragioni per preoccuparsi e chiedersi se non sia giunto il tempo che anche la procura di Roma coltivi meglio la sua autonomia e indipendenza dal potere politico, ma quel che accade nel pomeriggio finisce per rendere grottesco, o "italiano" (fate voi), il caso. Ottanta sostituti si ribellano alla mossa del loro capo. Si convoca un'assemblea. Toni accessi, valutazioni severe. Si chiede a Ferrara di smentire quel che gli viene attribuito o di accettare il rimprovero di una nota collettiva e pubblica dei suoi collaboratori. Ne nasce un comunicato tartufesco, incredibilmente firmato anche da Ferrara, dove si legge che con la procura di Firenze "non c'è alcuno scontro" perché "la professionalità di quei colleghi non è in discussione"; che a Roma c'è "disagio" per quel che ha combinato Achille Toro, ma la sua infedeltà non può macchiare le toghe degli altri in un ufficio che "è coeso" e dunque non sfiducia il capo.

La nota è un capolavoro di ipocrisia, il fragile tentativo di dare una parvenza di solidità e coerenza a un'aria fritta che lascia irrisolta la sobria diffidenza che si nutre per la procura di Roma. È un'apprensione che non si può cambiare in un giorno né in una stagione. Si possono almeno cambiare subito le abitudini di quell'ufficio e aprire spazi ai molti pubblici ministeri che chiedono di fare soltanto il lavoro che la Costituzione assegna loro. Tocca a questi sostituti battere un colpo per diradare le nebbie che ancora si vedono intorno a quel Palazzo. Si deve avere fiducia che questo accadrà presto.

Tratto da la Repubblica del 23 febbraio 2010

3 commenti:

Anonimo ha detto...

EPPUR QUALCOSA SI MUOVE, TRANNE CHE A CATANZARO.SALERNO SE ANCORA CI SEI BATTI PURE TU UN COLPO NEL'ASSE CATANZARO LAMEZIA E' SEMPRE PEGGIO.

Anonimo ha detto...

Vuoi vedere che a ritroso si arriverà a ricostruire tutto il marcio che c'è nella procura capitolina...e non solo?

Anonimo ha detto...

Catanzaro: a gg. attese pronunce (abbreviato ed udienza preliminare) nel processo why not. Si accettano scommesse o nessun bookmaker è così folle?