In una giornata in cui lo Stato e la Giustizia si sono presi una grande rivincita sulle “mafie” e sull’illegalità, il mio pensiero va ai poliziotti della Squadra Mobile di Palermo, che hanno portato a segno un ulteriore e grande successo.
Il compiacimento, in modo particolare, va a quei tenaci poliziotti della scuola di Arnaldo La Barbera. A quei poliziotti che non hanno mai smesso di credere nello Stato e nelle Istituzioni.
Molti di loro, per la loro determinazione e l’incessante impegno nel lavoro, hanno pagato prezzi altissimi.
Molti figli hanno perso la vicinanza del loro padre. Molte famiglie sono andate pure in frantumi.
Fare il poliziotto a Palermo, lavorare alla Squadra Mobile, inseguire per decenni latitanti del calibro di Bernardo Provenzano e dei Lo Piccolo, non è certo come fare l’impiegato all‘Assemblea Regionale Siciliana, anche se a solo a cento metri di distanza.
Nel ricordo di questo evento, mi sia pure consentito di far sapere a qualcuno - che ancora non ha avuto modo di ricredersi per quello che ha detto e per quello che ha fatto – un particolare che oggi è forse più importante di ieri.
Perché Sandro Lo Piccolo era latitante?
Perché è stato arrestato?
La domanda potrebbe sembrare ovvia, ma non lo è.
Nessuno è latitante prima di essere ricercato.
Nessuno può essere ricercato, e diventare un "latitante", se non sulla base di un valido provvedimento dell'Autorità Giudiziaria. Nelle matricole del carcere si chiama "titolo".
La risposta a queste domanda mi dà oggi la possibilità di spiegare alcune cose, che qualcuno – mi riferisco sempre a quello che mi ha dato del “mascalzone”, dello “strano soggetto”, del “Licio Genchi” ed altro – non ha ancora ben chiare.
Ebbene, correva l’anno 1997, quando i magistrati della Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo – a conclusione di complesse investigazioni di polizia e carabinieri – avevano chiesto al GIP l’emissione di una ordinanza di custodia cautelare in carcere, nei confronti di numerosi indagati. Le indagini riguardavano, in modo particolare, i capi ed i killer della cosca mafiosa palermitana di “San Lorenzo”, accusati di aver compiuto una serie di omicidi nel '95. Secondo l'accusa, la cosca mafiosa di “San Lorenzo” - la più fedele ai clan “corleonesi” di Bernardo Provenzano, Totò Riina e Leoluca Bagarella - aveva avuto anche l'incarico di compiere un attentato nei confronti dell’ex dirigente della Squadra Mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera. Sulla base della richiesta della Procura palermitana, il GIP del Tribunale di Palermo (dr. Florestano Cristodaro) aveva emesso 9 ordinanze di custodia cautelare in carcere, per altrettanti soggetti, accusati di associazione mafiosa, omicidi, detenzione di armi e altri reati. L’08-04-1997 – con una brillante operazione di polizia – finivano in carcere Salvatore Genova, 39 anni, Francesco Paolo Liga, 33 anni, Giuseppe Lo Verde, di 40, i fratelli Calogero e Sandro Lo Piccolo, 25 e 22 anni (allora), Felice Orlando, di 40, Domenico Randazzo, di 47 e Vincenzo Taormina, di 60. La stessa ordinanza cautelare veniva notificata in carcere al boss mafioso Salvatore Biondo, detto il “lungo”, già detenuto. Calogero e Sandro Lo Piccolo erano i figli del più noto capomafia Salvatore Lo Piccolo. Salvatore Biondo - per chi non lo sapesse - non era in carcere per contraffazione di musicassette, o illecita duplicazione di CD-Rom per Play-Station. I magistrati di Caltanissetta lo avevano arrestato per la “Strage di Capaci”. Secondo l’accusa, Salvatore Biondo - uomo d'onore della famiglia di ”San Lorenzo” avrebbe contribuito a nascondere l'esplosivo e a trasportarlo nel cunicolo dell'autostrada, nel punto in cui furono fatti saltare in aria Giovanni Falcone, Francesca Morvillo ed i poliziotti della scorta. Nonostante tutto, però, il provvedimento del GIP Cristodaro non ha retto al vaglio del Tribunale del Riesame.
Non si può dire che quell’ordinanza di annullamento non fosse fondata.
A firmarla è stato il Giudice Alfredo Morvillo, il fratello di Francesca Morvillo e cognato di Giovanni Falcone, tragicamente trucidati nella strage di Capaci del 23-05-1992.
Ironia della sorte ha voluto che – oggi - fosse proprio lo stesso magistrato Alfredo Morvillo – nella nuova qualità di Procuratore Aggiunto di Palermo – a guidare il pool di magistrati della Procura di Palermo, che con i poliziotti della Squadra Mobile, hanno eseguito la cattura di Sandro Lo Piccolo, di suo padre e di altri affiliati mafiosi.
Questi sono fatti e non parole.
Nulla di cui scandalizzarsi, secondo me.
Questo non è un limite, o un difetto della giurisdizione. Anzi, dimostra la fisiologia di obbiettivi procedimenti di verifica della prova, nel processo penale accusatorio.
Nulla di più di quanto un magistrato serio ed onesto deve fare, secondo il proprio ruolo, in ossequio ai principi che regolano lo stato di diritto, nel nome di una “giustizia giusta”, che è l’essenza stessa della democrazia.
Sta di fatto che, dopo l’Ordinanza del Tribunale del Riesame di Palermo della primavera del 1997, Sandro Lo Piccolo è uscito (e non evaso) dalla porta principale del Carcere dell’Ucciardone di Palermo, da dove era entrato qualche settimana prima, accompagnato in manette dai poliziotti della Squadra Mobile, che lo avevano arrestato dopo anni di indagine.
Da quella mattina Sandro Lo Piccolo è diventato uccel di bosco.
Col passare degli anni sono stati emessi a suo carico un’infinità di altri provvedimenti giudiziari, che ne hanno fatto lievitare l’importanza nel “borsino” dei più pericolosi latitanti italiani.
Fino a ieri Sandro Lo Piccolo – per la sua età e per la sua ferocia – era considerato in assoluto uno dei più temibili latitanti di “Cosa Nostra”.
A parte il conclamato “genetliaco” criminale, erano note le sue capacità di reclutare giovani adepti all’organizzazione mafiosa, con una propensione all’omicidio ed alla violenza, che superava pure alcune più prudenti strategie dei vertici di “Cosa Nostra”.
Dopo l’arresto di Bernardo Provenzano - e forse proprio a causa dell’arresto di Bernardo Provenzano - chi ne capisce di “Mafia” sostiene che Sandro Lo Piccolo era senza dubbio diventato più forte e più pericoloso di prima. Poteva ancora contare sulla spalla del padre, pure latitante e non a caso arrestato insieme a lui.
Nel 1997 la situazione era un po’ diversa.
Sandro Lo Piccolo aveva appena 22 anni (è nato il 16-02-1975), ma prometteva bene.
Era già indagato per una serie di omicidi, tentati omicidi, armi ed altri reati di mafia.
Per questo era stato arrestato, fino all’annullamento della Ordinanza cautelare del GIP Cristodaro, disposta dal Tribunale del Riesame.
Dopo quell’annullamento mi chiamò un bravo Pubblico Ministero della Procura Antimafia di Palermo e mi accennò al provvedimento del Riesame, che aveva scarcerato anche Lo Piccolo.
Mi convocò in ufficio ed insistette non poco, affinché io accettassi un incarico di consulenza su quegli omicidi.
In quel periodo – erano gli anni della Procura di Gian Carlo Caselli – le cose da fare a Palermo non mancavano certo.
Lavoravo solo ed esclusivamente con i magistrati di Palermo e i risultati di quel lavoro fanno ormai parte della “Storia” di questo Paese, che non spetta a me raccontare.
Nonostante tutto, con grossi sacrifici personali e familiari, ho accettato l’incarico del Pubblico Ministero Antimafia Mauro Terranova, che non era disposto a chiudere il fascicolo con una archiviazione, dopo la pronuncia del Tribunale del Riesame.
Le alternative, invero, erano poche.
La polizia aveva fatto tutto quanto poteva, redigendo un voluminoso rapporto giudiziario.
Ho letto le carte pagina per pagina, rigo per rigo, parola per parola. Ho letto pure l’ordinanza del Riesame e mi sono messo al lavoro.
Non avevo certo la soluzione del quesito, ma avevo capito che molto si poteva fare.
In questo devo anche ringraziare il contributo che mi ha dato il dr. Roberto Di Legami, che all’epoca dirigeva la “Sezione Omicidi” della Squadra Mobile di Palermo.
Un bravissimo ed onesto funzionario di Polizia, anche lui della “scuola” di Arnaldo La Barbera.
Un funzionario a cui va tutta la mia amicizia, la mia riconoscenza e la mia solidarietà, anche per il triste calvario che ha dovuto subire, con un infamante processo a Caltanissetta per “falsa testimonianza”.
Pochi lo sanno, ma Roberto Di Legami è stato prima indagato, e poi rinivato a giudizio e processato dal Tribunale di Caltanissetta, dopo le accuse di alcuni ufficiali del ROS dei Carabinieri, poi risultante infondate.
Roberto Di Legami è stato costretto a lasciare Palermo e la “Squadra Mobile”, a cui era tanto legato.
A parte l’assoluzione in quell’assurdo processo di Caltanissetta - che tutti ritenevamo scontata - mi auguro che un giorno Roberto possa ritornare a lavorare a Palermo, a fare quello che ha sempre e solo voluto e saputo fare nella vita: il “poliziotto”.
Roberto Di Legami non è un burocrate, non è un “passacarte” e lo Stato non può privarsi del contributo professionale di un poliziotto come lui, che ha fatto solo e soltanto il suo dovere.
Anche se non lo ha fatto nessuno, a lui va oggi il mio pensiero, nel ricordo dell’acume che ha avuto chi – non a caso - lo ha messo a dirigere a suo tempo la “Sezione Omicidi” della Squadra Mobile di Palermo.
In tutto questo mi conforta una sola cosa: fui io a parlare di lui per la prima volta ad Arnaldo La Barbera. Non lo conoscevo nemmeno di persona, ma avevo letto un sua annotazione, proprio su “San Lorenzo”, che mi aveva fatto intuire che dietro quel Funzionario c’era anche un bravo poliziotto.
Con questo torniamo a Sandro Lo Piccolo, da dove ci eravamo fermati.
Siamo al conferimento dell’incarico di consulenza del 24-05-1997, nel procedimento 2292/95 R.G.N.R., della Procura Distrettuale Antimafia di Palermo, a carico di Sandro Lo Piccolo e degli altri boss di “San Lorenzo”, scarcerati dal “Riesame”.
Orbene da quel giorno mi sono messo a lavorare sulle carte e sui tabulati.
Fianco a fianco col magistrato – che è pure molto bravo in informatica – ho tracciato un quadro ricostruttivo e probatorio del tutto innovativo, delle vicende che già i poliziotti della “Mobile” avevano riportato egregiamente nelle loro informative.
Forse la fretta di concludere, per la conclamata pericolosità degli indagati (armati ed attivi nel territorio), aveva determinato una non completa considerazione degli accertamenti.
Altre verifiche ed approfondimenti andavano senza dubbio fatti e non a caso il Tribunale del Riesame di Palermo ha mosso delle censure all’ordinanza del GIP, fino al punto da decretarne l’annullamento e disporre la immediata scarcerazione degli indagati.
Invero, tempo dopo, la Cassazione ha annullato l'Ordinanza del Riesame, rinviando ad altra Sezione del Tribunale di Palermo la decisione cautelare.
Il Tribunale di Palermo ha ripristinato la misura cautelare detentiva a carico di Sandro Lo Piccolo, che non è stata mai eseguita: si era dato già alla macchia.
A parte gli annullamenti ed i Riesami, sta di fatto che, in raccordo col Pubblico Ministero e con la collaborazione di Roberto Di Legami e dei suoi poliziotti (che non si sono per nulla sentiti defraudati di alcunchè, sapendo che un consulente del Pubblico Ministero stava rileggendo il loro lavoro), nel giro di poco più di due mesi – lavorando giorno e notte - ho depositato la mia relazione, con delle elaborazioni, dei grafici e delle risultanze, che non avevano certo bisogno di molto parole per essere compresi.
Al processo, in Corte d’Assise, sono stato sentito per diverse udienze, quando col mio computer ed i miei tanto temuti "dati" ho risposto alle domande del Pubblico Ministero.
Anche gli avvocati mi hanno messo sotto torchio. Ci sono stati anche scontri e battibecchi.
Tutti conclusi, però, nel civile confronto di posizioni avverse e con la lealtà e la correttezza che a Palermo, persino gli avvocati che difendono i peggiori mafiosi ed assassini riescono ad avere.
Una correttezza ed un rispetto del mio ruolo, della mia funzione e del mio lavoro, da parte della classe forense, che – perché sia chiaro - non è mai venuta meno, né a Palermo, né in altre parti di Italia.
Chi fa il proprio dovere con onestà e professionalità, non ha nulla da temere da chi lo fa allo stesso modo, seppure dall’altra parte della barricata.
Ritorniamo a Sandro Lo Piccolo ed al processo in Corte d’Assise.
Dopo la mia audizione ed il controesame delle difese, la mia consulenza, con la mia testimonianza, è divenuta patrimonio della Corte che l’ha acquisita integralmente nelle forme previste dalla legge.
Quella consulenza e quella testimonianza rappresentavano il “novus” di quell’indagine, insieme agli altri elementi di riscontro, che il Pubblico Ministero si era premurato a raccogliere (anche utilizzando le mie anticipazioni).
Sta di fatto che grazie alla tenacia di un Pubblico Ministero che non si è fermato all’annullamento di un Riesame, l’esito finale di quel procedimento è stato assai diverso di come si auguravano gli imputati, dopo la scarcerazione.
Il processo in Corte d’Assise, vedi caso, è stato presieduto dal Giudice Angelo Monteleone.
La sentenza è stata poi scritta dal Giudice Cinzia Parasporo, con una capacità argomentativa e di sintesi, di fatti e vicende assai complesse, che rendono ancora una volta onore alla professionalità della Magistratura palermitana.
Sono grato al Presidente Monteleone ed al magistrato estensore della sentenza, delle lusinghiere considerazioni e degli apprezzamenti, che hanno voluto formulare con riguardo al mio lavoro ed alla mia persona.
Lo stesso dicasi per le sentenze dei gradi successivi del giudizio, fino alla pronuncia della Suprema Corte di Cassazione, che ha reso definitiva la condanna alla pena dell’ergastolo, anche per il giovane Sandro Lo Piccolo.
Vedi caso, il Giudice Angelo Monteleone (del processo di primo grado) è lo stesso magistrato che ha presieduto la sezione del Tribunale di Palermo, che ha giudicato (pure in primo grado) il deputato di Forza Italia Gaspare Giudice.
In quel processo – dove ho pure svolto una articolata consulenza – il Pubblico Ministero aveva chiesto 15 anni di reclusione per il parlamentare.
Il Tribunale lo ha assolto.
Nessuno ha gridato allo scandalo.
E’ la fisiologia di un sistema giudiziario, nel quale sarebbe ancor più grave se queste cose non accadessero. Lo stesso dicasi per altri “indagati eccellenti”, che pure a Palermo hanno accettato il processo e che nel processo si sono difesi e fatti giudicare.
Queste vicende, sebbene del tutto diverse, per fatti e protagonisti, hanno in comune qualcosa, a parte il Presidente del Collegio giudicante.
Gli imputati – vuoi Sandro Lo Piccolo in un caso e Gaspare Giudice nell’altro – hanno comunque accettato e subito il processo.
I loro avvocati si sono comportati con assoluta correttezza, professionalità e determinazione, fino alla fine.
Gli imputati, sia pure nella loro assoluta diversità, si sono fatti giudicare nel processo, con dignità e rispetto delle istituzioni e di quanti erano chiamati a svolgere il proprio compito, dagli uscieri, ai commessi, ai cancellieri, ai consulenti, ai poliziotti, ai Pubblici Ministeri, fino ad arrivare ai Giudici.
Con questo voglio dire che tanto gli indagati eccellenti che i mafiosi, a Palermo, hanno sempre accettato il "processo" e le regole delle Legge.
Mai nessuno ha ipotizzato golpe nella magistratura, posto che quand’anche qualcuno l’avesse pensato, non avrebbe trovato adepti da nessuna parte.
Se così è stato a Palermo, lo stesso non può dirsi in altri luoghi.
Solo il tritolo per i giudici ed i colpi di lupara per i tanti poliziotti, carabinieri e servitori dello Stato, sono riusciti a fermarli.
Proprio i “caduti” palermitani sono la tangibile conferma di uno Stato che non si è piegato al ricatto e che non si è lasciato nemmeno accattivare da interessati compromessi col potere.
La giusta dialettica processuale - le incriminazioni, le condanne, le assoluzioni, le riforme dei giudizi e persino le stesse revisioni - appartiene alla fisiologia del processo.
Su questi temi, a parte l’esultanza per la cattura dei Lo Piccolo, forse in molti farebbero bene a riflettere.
Gioacchino Genchi
La Repubblica - Palermo - 06-11-2007, di Salvo Palazzolo
Le storie intrecciate del capomafia e del suo rampollo: dalla conquista del potere alla paura della vendetta
Gli inseparabili di Cosa nostra ascesa e caduta dei Lo Piccolo
Salvo Palazzolo
Il pm: "Il figlio era diventato l´angelo custode del padre"
Da quando in Cosa nostra soffiavano venti di guerra, erano ormai inseparabili. Padre e figlio. Salvatore e Sandro Lo Piccolo. I poliziotti e i magistrati lo sospettavano. Ieri mattina, al culmine del blitz di Giardinello, hanno avuto la conferma: «Probabilmente, il figlio non aveva più lasciato il padre da quando si era saputo che una parte di Cosa nostra, quella capeggiata da Nino Rotolo, avrebbe voluto morto il capomandamento di Tommaso Natale», così ipotizza il sostituto procuratore Gaetano Paci. Sandro non era più soltanto il figlio prediletto, era ormai diventato l´ombra, la scorta. E, soprattutto, un killer pronto a sparare. Per quella che era ormai diventata la sua causa. Interpretata dal suo padre padrino, l´uomo a cui ha dichiarato in lacrime il suo amore mentre entrava in manette dentro la volante della polizia. Eppure, un tempo, Sandro era stato il ragazzo ribelle. Tanto che qualche volta anche il padre era dovuto intervenire. «Io Sandro me lo ricordo - ha rivelato il pentito Isidoro Cracolici, un tempo braccio destro di don Salvatore - diciamo che l´ho svezzato io. Sin da piccolo l´avevo sempre vicino a me. A momenti, ha fatto la latitanza anche lui da bambino». Nel ‘91, Sandro fu fermato per furto: aveva 16 anni. In cella rimase pochissimo. Due anni dopo, fu sospettato di rapina ed estorsione. Era già in carriera. E il padre non era proprio contento allora: Cracolici ha spiegato che «u Nicu», così lo chiamavano, «era un ragazzo molto irrequieto, dedito a liti e scorribande», tanto da prendersi i rimproveri anche di alcuni vecchi uomini d´onore. Ma il crimine si impara presto: poco importa che il primo omicidio di Sandro Lo Piccolo, un ladro che operava senza autorizzazione, rischiò di andare a male perché i killer furono colpiti dalle bottiglie lanciate dai balconi. Quella volta, il padre padrino lo rimproverò sonoramente. Il secondo omicidio fu commesso secondo i canoni del perfetto killer di mafia, questo era stato negli anni Ottanta Salvatore Lo Piccolo. E Sandro stava ormai ripercorrendo le sue gesta criminali. Padre e figlio, poco a poco cominciarono ad essere sempre più uniti. Tutti e due con la comune fama di dongiovanni: «u Vascu», il vecchio è un gran fumatore di Malboro, veste sportivo e sempre all´ultima moda. Non sappiamo se «u Nicu» fuma, ma di certo ama anche lui le buone marche: indossava un bel maglioncino quando cinque anni fa sfuggì ai carabinieri inerpicandosi sui tetti delle ville di via Lanza di Scalea. Il particolare è rimasto nelle relazione di servizio. Gli abiti di lusso raccontano molto di quello che è rimasto per alcuni anni il più giovane fra i padrini di Cosa nostra. Sandro Lo Piccolo mandava un certo Tonino "u curtu" dello Zen a comprargli abiti all´ultima moda. E questa cosa era ritenuta troppo imprudente dagli altri mafiosi. Tonino entrava nei negozi più esclusivi del centro città e comprava per milioni delle vecchie lire. Pantaloni, maglioni, giacche, camicie. Ma niente della sua misura. I poliziotti della squadra mobile capirono presto che quegli abiti così eleganti non erano per lui: chi lo aveva incaricato degli acquisti era proprio Sandro Lo Piccolo.Da quando, però, le indagini avevano stretto il cerchio, il rampollo di Tommaso Natale era diventato prudente. Racconta il pentito Antonino Giuffrè che a Lo Piccolo junior era stata ormai delegata la gestione del business della droga. Il padre lo aveva investito del potere necessario. Ma la vera iniziazione era stata un´altra: anche «u Nicu» poteva infatti vantarsi di avere beffato la giustizia. L´ordine di arresto per i due omicidi fu inizialmente annullato: da allora il giovane boss era latitante. Poi, l´analisi del suo cellulare e di tutti i contatti, svolta dal consulente informatico della Procura, Gioacchino Genchi, ribaltò quell´inchiesta che sembrava destinata all´archiviazione. E in pochi mesi, la corte d´assise decretò l´ergastolo. Lo Piccolo junior e senior erano ormai una cosa sola. E i picciotti li veneravano. Il più fedele era Andrea Adamo, 45 anni, anche lui fra gli arrestati di ieri mattina. Era latitante dal mese di luglio 2007, quando era scattata l´operazione "Gotha". Ufficialmente, era solo un rivenditore di moto, in realtà era uno dei mafiosi più influenti del mandamento di Brancaccio. Anche grazie all´intercessione del suocero, Giuseppe Savoca, nome storico di Cosa nostra. L´altro fedelissimo dei Lo Piccolo padre e figlio era Gaspare Pulizzi, 36 anni, reggente della famiglia di Carini, latitante dal marzo scorso. Tutti si sono chiusi nel silenzio dopo l´arresto.
Salvo Palazzolo
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7 commenti:
Se posso permettermi, per migliorare e favorire la lettura delle sue testimonianze sarebbe meglio sintetizzare in alcuni casi, proprio per favorire chi vuol avvicinarsi a questi argomenti a volte un po' ostici per i termini "tecnici".
e' grazie ai 'mascalzoni' come LEI che questo Paese non e' in mano alla malavita totalmente!...
grazie
ottima idea un blog che affronta argomenti tabu da un punto di vista preparato come il suo
Con stima (e orgoglio castelbuonese), segnalo la manifestazione di solidarietà pubblicata sul nostro sito (Castelbuono.Org). Non desista.
Michele
stesso paese, stesso cognome.
Orgoglioso di essere tuo concittadino.
Giuseppe Genchi
Fa sempre piacere leggere i tuoi articoli Gioacchino. Sei un grande funzionario di Polizia e io sto aspettando il momento in cui il Tar risponderà alla tua domanda di riammissione.
Ciao.
Andrea
Non posso che augurare al dr. Dilegami i più alti riconoscimenti da parte dello Stato.Ho avuto la fortuna e l'onore di conoscerlo.Veramente una persona speciale.Cordialmente
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