sabato 21 agosto 2010

Falcone e Faccia da mostro


Segreto dopo segreto, se si scorrono le vicende delle indagini antimafia alla fine si arriva sempre a un boss e a un agente segreto sfigurato

E' in galera dal 2001. Per otto anni aveva fatto impazzire la Dda di Palermo, che lo riteneva al centro di un traffico di droga costruito sull'asse Stati Uniti – clan dei Vernengo in Sicilia – Nord Italia. Ma per otto anni si era come volatilizzato. Scomparso. E oggi sarebbe probabilmente su una spiaggia a godersi il sole, se non si fosse fatto beccare a Chiavari per il tentato omicidio di un'ottantaduenne in cambio di 250 milioni di lire. Una storiaccia di raggiri ai danni di ricchi anziani, convinti a firmare testamenti a favore di una banda di magliari. Una storiaccia dove nessuno pensava mai che potesse finirci dentro uno del suo calibro.

Si chiama Gaetano Scotto (nella foto a sinistra, ndr), boss dell'Arenella, ed è tra i condannati per la morte di Paolo Borsellino e della sua scorta. Sembra il grottesco epilogo di un killer di Cosa Nostra caduto in disgrazia. E forse è così.  Forse. Di certo alla Procura di Caltanissetta stanno riscrivendo ciò che accadde nelle stragi del '92, in una trama molto complessa: parte dal lontano fallito attentato all'Addaura a Giovanni Falcone nell'89, affronta presunte trattative tra lo Stato e la mafia, depistaggi, e personaggi che nemmeno ad uno scafato scrittore di thriller verrebbero in mente.

L'intreccio è fitto di ombre di servizi segreti deviati. Ma in questo scavare a ritroso tra fatti e 007 invisibili, si finisce sempre per incontrare lui, Gaetano Scotto, capace di mandare in tilt i cacciatori di latitanti per otto anni, ma di finire miseramente in galera per aver tentato di ammazzare una pensionata. E allora la domanda è inevitabile: chi è davvero? Per scoprirlo, forse, bisogna mettere insieme tanti piccoli pezzi di un puzzle.

Del suo passato si sa poco o nulla. Pare curasse gli interessi di Cosa Nostra in Emilia Romagna. A dargli un ruolo preciso per la prima volta è il pentito Vito Lo Forte: lo ricorda nel riciclaggio alla fine degli anni ottanta nella Svizzera degli introiti della coca. Dice che Scotto ripuliva il denaro di Gaetano Fidanzati, il ras della droga in Lombardia che aveva portato Cosa Nostra a Milano, allestendo riunioni nei bar del quartiere Lorenteggio con un nutrito gruppo di pezzi da novanta: da Pietro Vernengo a Totuccio Contorno, dai fratelli Grado a Vittorio Mangano. Roba grossa insomma. Fiumane di denaro sporco, che passava il confine per essere lavato e reinvestito. Un giro tale che, racconta lo stesso Lo Forte, fu proprio per fermare le indagini sul riciclaggio in Svizzera che venne organizzato l'attentato all'Addaura, dove Giovanni Falcone aveva affittato casa: sarebbero dovuti morire i due magistrati elvetici che indagavano, Claudio Lehmann e Carla Dal Ponte, ospiti quel giorno del giudice. In tutto questo, se e quale ruolo potesse aver avuto all'Addaura l'uomo che ripuliva il denaro della droga, Gaetano Scotto, resterà per un bel pezzo un mistero. Fino ad oggi.

Tre anni fa la madre di un poliziotto, Nino Agostino, misteriosamente ammazzato con la moglie nell'agosto del 1989, ossia tre mesi dopo il fallito attentato all'Addaura, ne riconosce la foto su un giornale: sostiene che era lui, Gaetano Scotto, a pedinare il figlio. Magari si sbaglia. Ma non è l'unica ad accostarne il nome al poliziotto ucciso: un altro collaboratore di giustizia, Oreste Pagano, racconta infatti che Scotto si vantava di aver ammazzato Agostino, reo di aver scoperto un legame tra mafia e questura.

Sembrano due storie diverse, quelle in cui l'uomo senza passato appare: da una parte il riciclaggio di soldi in Svizzera, dall'altra le voci sulla morte di un agente. Ma i magistrati hanno ora collegato l'omicidio di Agostino all'attentato all'Addaura, proprio il luogo dove, per il pentito Lo Forte, dovevano morire i giudici impegnati nel caso del riciclaggio della droga in Svizzera. Ed è qui che la strada di Gaetano Scotto si incrocia, nelle indagini, con quella di un personaggio inquietante, la cui esistenza non è mai stata provata.

Poco prima che venisse piazzato l'esplosivo all'Addaura, una donna notò nei paraggi un uomo con la "faccia da mostro". Pare che lo avesse visto pure un tizio, Francesco Paolo Gaeta, ma finì crivellato di colpi. È un uomo di cui ha parlato anche Massimo Ciancimino: un uomo delle istituzioni, dice. Ma mica se lo ricorda solo lui. Lo descriveva così anche il confidente Luigi Ilardo, che fu presto assassinato: tra le tante stranezze narrate al colonnello dei carabinieri Michele Riccio — tipo il mancato arresto di Provenzano — raccontò che c'era un agente con la faccia da mostro che si aggirava sempre in posti strani, come quando avevano ucciso proprio il poliziotto Nino Agostino. Una specie di fantasma di Stato. Un fantasma che però conoscono in tanti: lo ricordano infatti anche a casa della stesso Agostino, prima che il giovane venisse trucidato.

Non si sa chi esattamente sia, faccia da mostro. Ma ne parla infine il solito pentito Lo Forte; lo chiama il "bruciato", per via del volto ustionato. E spiega che aveva rapporti, coincidenza curiosa, con Gaetano Scatto. ll boss dell'Arenella senza passato e l'agente segreto senza nome.

A Caltanissetta gli inquirenti stanno cercando da un pezzo di capire chi sia. Intanto, hanno messo insieme alcuni pezzi del puzzle. E hanno indagato Scotto per i fatti dell'Addaura. È venuto fuori infatti che Nino Agostino, uno che aiutava, pare, i servizi segreti ad acciuffare i latitanti, si trovasse all'Addaura il giorno dell'attentato. E che lo avesse sventato insieme a un giovane in prova al Sisde, Emanuele Piazza, capace di infiltrarsi fra i mafiosi per stanarli uno a uno.

Sarebbe stato per questo che entrambi furono ammazzati: Agostino prima e Piazza poi. Quest'ultimo fu sciolto nell'acido il 16 marzo del 1990 dal picciotto Francesco Onorato: a lui infatti era stata svelata l'identità segreta di Piazza. Segreta evidentemente non per tutti. A Onorato l'aveva spifferata addirittura l'attendente di Riina, Salvatore Biondino, un tipo sempre bene informato. O quasi. Entrambi sono stati condannati come esecutori materiali dell'attentato all'Addaura, ma Biondino, quando l'avevano predisposto, si era detto sicuro: «Abbiamo le spalle coperte». Chi glielo avesse assicurato non si sa. Ma l'aspetto sinistro è che in teoria nessuno fuori dagli uffici istituzionali, tantomeno Gaetano Scotto e Salvatore Biondino, doveva sapere dei compiti di Piazza e Agostino; così come in teoria nessuno fuori dagli uffici istituzionali doveva conoscere l'allora incensurato Biondino e l'uomo senza passato dell'Arenella. Nessuno, naturalmente, tranne le talpe. Palermo non sarà Milano, ma è perennemente avvolta nella nebbia.

Prima di rivedere uscire ancora una volta il volto di Gaetano Scotto legato a un altro, sconosciuto, 007 bisogna seguire un percorso tortuoso, che parte sempre da lì, tre anni prima, all'Addaura.

"L'attentato del 1989 doveva avvenire un giorno prima del ritrovamento dell'esplosivo, il 20 giugno, quando Falcone aveva previsto di fare un bagno, e solo alla line decise con i magistrati elvetici di cambiare programma. Ma questo era noto a pochissime persone, un aspetto cruciale per capire cosa accadde". Luca Tescaroli è stato pubblico ministero per la strage di Capaci ed è convinto, come lo era Falcone, che dietro all'attentato ci fossero "menti raffinatissime". "Fu un periodo particolare sotto il profilo istituzionale. C'erano le lettere delatorie del Corvo e l'anomalia della supplenza giudiziaria dell'Alto Commissariato, che si occupò della relativa indagine. E ancora: si diffondevano notizie mai risultate vere, che intossicavano l'ambiente, come l'incontro a Palermo tra Buscetta, De Gennaro e il barone D'Onufrio, poi assassinato. Un attentato doveva di fatto impedire la cooperazione investigativa tra Falcone e i magistrati svizzeri sul riciclaggio dei soldi della droga in Italia e in America, e sull'ipotesi di alcune collusioni con particolari elementi dello Stato".

Pochi mesi dopo il fallito attentato, mentre si trova nel carcere di massima sicurezza di Full Sutton (Inghilterra) il boss Francesco Di Carlo riceve la visita, per due volte, di alcuni esponenti di servizi segreti di diversi Paesi stranieri — mai si saprà chi con precisione, nonostante le rogatorie internazionali — che gli chiedono un appoggio per ammazzare Falcone. Lui indica Antonino Gioè, all'epoca ignoto boss di Cosa Nostra, che in effetti sarà tra gli esecutori materiali di Capaci. Poco prima della strage, Gioè è protagonista di una curiosa trattativa dei carabinieri con Cosa Nostra, attraverso l'intermediazione dell'estremista di destra Paolo Bellini, per il recupero di opere d'arte rubate. Tuttavia Gioè non può raccontare se fu contattato dai servizi segreti stranieri che incontrarono Di Carlo, se la strage di Capaci fu fatta anche con l'appoggio di uomini delle istituzioni e se fu la continuazione del progetto dell'Addaura. A dire il vero Gioè non può dire proprio più nulla. Muore impiccato in carcere poco dopo l'arresto, lasciando un bigliettino in cui scrive che Bellini era un infiltrato dello Stato. Quel che è inquietante è che, stragi a parte, una scia di morti e di tunnel sotterranei paiono collegare ancor di più la mafia allo Stato. Cosi vale anche per l'ultimo dettaglio: per tenere i contatti per la strage di Capaci Gioè adoperò dei telefoni clonati Nec P300 usando numeri ufficialmente inesistenti eppure attivati in una stranissima filiale Sip, dietro cui, secondo il consulente della Procura di Caltanissetta di allora Gioacchino Genchi, c'era una base coperta dei servizi. Nessuno ne saprà più nulla.

Le ombre dei servizi si materializzano dunque all'Addaura con faccia da mostro, nelle soffiate per ammazzare Agostino e Piazza, perfino nel carcere di Full Sutton e poi a Capaci, nell'attivazione dei telefoni clonati degli esecutori materiali. Ma è su via D'Amelio che le ombre prendono corpo. E quando lo fanno, sono sempre alle spalle dell'uomo senza passato, il boss dell'Arenella, Gaetano Scotto.

Siamo nel luglio del 1992. Paolo Borsellino appunta le dichiarazioni esplosive del boss Gaspare Mutolo sulle collusioni istituzionali. Segna tutto su un'agenda rossa. Vede il boss l'ultima volta il giorno 17. Due giorni più tardi, una Fiat 126 imbottita di Semtex lo uccide in via D'Amelio, sotto casa della sorella. L'agenda rossa sparisce. Passano due ore. E arriva sul luogo della strage il commissario capo Gioacchino Genchi. Si sta già occupando dell'agenda elettronica e dei pc di Falcone: ha scoperto che la prima è stata cancellata e che i secondi sono stati manomessi, ma solo dal loro sequestro. È maledettamente curioso, pensa. Ma non maledettamente curioso come quanto sta per vedere. Il fumo è ancora alto. E i pompieri in azione. Si guarda intorno chiedendosi da dove i mafiosi possano aver attivato il telecomando per la strage, cosa che in effetti non si saprà mai. Osserva, gira gli occhi. Poi salta in macchina e sale sul Monte Pellegrino, punto in cui la visuale è perfetta. Lì sopra c'è il castello Utveggio. E all'interno, un centro studi per manager, il Cerisdi. Almeno ufficialmente. Genchi scopre che dentro non ci sono solo futuri dirigenti. In alcuni uffici si alternano infatti ex persone dell'Alto Commissariato e ufficiali dei carabinieri recuperati nell'amministrazione civile, e c'é pure un centro massonico o paramassonico — spiegherà poi in aula — guidato da un funzionario della Regione Sicilia. Infine c'é un telefono perennemente collegato alla base coperta Gus, servizi segreti di Roma.

Borsellino non vedeva di buon occhio il castello, diceva alla moglie Agnese di chiudere le tende, perché non voleva essere spiato. E' un caso sicuramente, ma dai tabulati che Genchi analizza risulta abbiano chiamato il Cerisdi pure due mammasantissima di rango, difficilmente interessati a corsi scolastici: uno é Giovanni Scaduto, killer di Ignazio Salvo. E l'altro è proprio Gaetano Scotto, il boss che lavava i soldi della droga in Svizzera, l'uomo che pedinava il poliziotto dell'Addaura Nino Agostino e che secondo un pentito si vantava di averlo ucciso. L'uomo che, un'altra voce vuole collegato all'agente segreto con la faccia da mostro.

Genchi si segna tutti i dati. Ma non ha terminato il suo compito. Ancora bisogna capire come abbiano fatto i mafiosi a sapere dell'arrivo di Borsellino a casa della sorella, per prendere la madre. E scava scava, Genchi trova altri due elementi di grande interesse: il primo è un altro telefono clonato, i cui tracciati hanno seguito quel giorno, passo passo dall'albergo di Villa Igea, il percorso di Borsellino fino in via D'Amelio. Si tratta di un telefono clonato i cui contatti appartengono allo stesso circuito del suicida Gioè. ll secondo elemento è invece un uomo, un uomo il cui nome dà da pensare. E' un operatore telefonico della ditta Sielte, che avrebbe potuto intercettare con un'operazione rudimentale casa Borsellino. Indizi, tracce, niente di più. Ma il tipo della Sielte è uno che va avanti e indietro dalle pendici di Monte Pellegrino, uno che Genchi crede possa portarlo avanti nell'indagine. Tuttavia, dichiarerà alla Dia di Caltanissetta nel 2003, si sorprende quando il suo superiore Arnaldo La Barbera, a capo del gruppo d'indagine Falcone-Borsellino sulle stragi, convoca il direttore del Cerisdi, il prefetto Verga, "palesandogli sostanzialmente l'oggetto dell'indagine" sul castello, come riferiscono Nicola Biondo e Sigfrido Ranucci ne II Patto (Chiarelettere). Da lì a poco gli strani uffici al Cerisdi vengono infatti smobilitati. E i servizi smentiranno sempre di esserci stati.

Passa poco. La notte tra il 4 e il 5 maggio del '93 rutto precipita: Genchi litiga furiosamente con La Barbera; gli chiede almeno di non arrestare il telefonista della Sielte o difficilmente si arriverà ai mandanti. La Barbera, dirà Genchi, scoppia a quel punto a piangere, gli spiega che diventerà questore e che per lui é prevista una promozione per meriti sul campo. Ma il commissario capo non ci sta: sbatte la porta e lascia per sempre il gruppo Falcone-Borsellino. Genchi va via. E l'operaio della Sielte viene così arrestato: si chiama Pietro Scotto, ed è il fratello di Gaetano, il boss senza passato. Pietro Scotto é uno che, ha riferito Genchi ricordando le parole del pentito Lo Forte, sarebbe stato in grado di avvertire i mafiosi quando questi finivano intercettati.

Con l'uscita di Genchi le indagini su via D'Amelio prendono un'altra strada, seguono le indidicazioni del pentito Vincenzo Scarantino, l'uomo che ammette di essere stato il ladro della 126 che poi fu imbottita di esplosivo. E' grazie alle sue parole che viene consentito l'arresto immediato di Pietro Scotto. Scarantino diventa il punto di forza del gruppo d'indagine Falcone-Borsellino, che lo ha scovato grazie a tre rubagalline che ne hanno rivelato il ruolo. Anche se qualcun altro vuole assumersi il merito di averlo scoperto: "Realizzammo una sorta di schedatura degli esponenti della famiglia Madonia. Cercammo di individuare l'officina dove l'auto venne imbottita dl tritolo. Accertammo anche i rapporti tra Scarantino, appena arrestato, e alcuni esponenti mafiosi». Sono le parole dell'ex numero tre del Sisde Bruno Contrada, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, riportate dall'Ansa al suo processo il 25 novembre 1994. Scarantino in effetti confessa; é stato lui a rubare la 126 esplosiva. Tuttavia, nonostante le schedature di Contrada, nessuno dentro Cosa Nostra pare conoscerlo, almeno come uomo d'onore. Tutti lo rinnegano, dicono anzi che una sua amante sia tale Giusy la "sdilabbrata", un trans: e un uomo d'onore non lo farebbe mai. Scarantino confessa e poi ritratta, accusando esplicitamente di pressioni l'ex capo della mobile ora al vertice del gruppo Falcone-Borsellino Arnaldo La Barbera. E' un viavai di dichiarazioni. Alla fine Pietro Scotto viene assolto. Gaetano no: é condannato, ma solo in appello, quando ormai ha fatto perdere le tracce che verranno riprese a Chiavari.

Passano diciassette anni e scoppia il caso del killer Gaspare Spatuzza, uomo dei Graviano. Si autoaccusa del furto della 126, smentendo così in toto la ricostruzione di Scarantino, scagionando alcuni, tirando in ballo altri. Le sue tesi sono note. Buona parte del gruppo Falcone-Borsellino viene oggi indagata. Nel libro I misteri dell'agenda rossa (Aliberti) Francesco Viviano e Alessandra Ziniti riportano un documento che alla luce dei fatti appare devastante: é l'appunto di un anonimo funzionario di Stato in cui veniva suggerito ciò che Scarantino avrebbe dovuto dire. Sembra sia tutto da rifare: resta da chiedersi se si trattò di errore giudiziario o di depistaggio, anche se ben tre persone accusarono Scarantino, prima che lui crollasse.

Ma non basta. Ci sono ancora tre elementi che hanno dell'incredibile. Il primo: pare che gia all'epoca l'uomo che coordinò le indagini sulle stragi, Arnaldo La Barbera, fosse un agente dei servizi, con il nome in codice di Catullo. Il secondo elemento é il misterioso signor Franco, che avrebbe fatto da trait d'union tra lo Stato, don Vito Ciancimino e Bernardo Provenzano. Infine, il terzo elemento, ciò che più conta in questa storia e che conduce ancora una volta all'uomo senza passato. E a una frase di Spatuzza: "Mentre veniva imbottita di esplosivo la Fiat 126 nel garage, tra noi c'era uno elegante, biondino, mai visto prima". Sembra si trattasse di un agente dei servizi, l'ennesimo. Sembra. Di certo, prosegue il killer, "parlava con Gaetano Scotto". Sempre lui, dall'Addaura a via D'Amelio, il boss che appare e scompare a fianco di personaggi in divisa tanto improbabili quanto sinistri. Di Scotto Genchi ha tutti i tabulati. Sono chiamate che portano lontano, a medici, futuri politici, imprenditori, favoreggiatori importanti. Contatti che magari non vogliono dire niente. Perché magari erano semplici conoscenti. ll fatto strano è che nessuno li abbia mai guardati per diciotto anni. Forse perché in fondo, per stabilire la verità, c'era già Scarantino. E forse perché la storia di Gaetano Scotto è solo la storia di un killer di mafia caduto in disgrazia. Forse.


Edoardo Montolli (fonte: il mensile IL - Il machile del Sole24Ore, n° 22, 20 agosto 2010)

martedì 17 agosto 2010

Io, Cossiga, e un auspicio per riparare agli errori

Dal blog de "Il Fatto Quotidiano" del 17 agosto 2010
di Gioacchino Genchi


Francesco Cossiga è morto. Con lui si chiude una pagina della storia d’Italia ancora avvolta da tanti misteri.
Ricordo ancora la telefonata di solidarietà che mi fece il 28 gennaio dell’anno scorso, anticipandomi la dichiarazione che aveva rilasciato sul mio conto alle agenzie.

ARCHIVIO GENCHI: COSSIGA, CONSULENTE HA RISPETTATO LA LEGGE
(ANSA) – ROMA, 28 GEN – ”Dopo aver ascoltato in tv Gioacchino Genchi ed avere letto tutto quanto e’ stato scritto su di lui e sulla sua attivita’ sia di funzionario della Polizia sia di consulente di numerosissime procure, mi sono convinto che egli ha agito sempre nel rispetto della legge e secondo il mandato conferitogli dai vari magistrati delle procure interessate”. Lo afferma il presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga. (ANSA 28-GEN-09 ore 12:32)

L’ho ringraziato sul mio blog per il suo intervento:

ARCHIVIO GENCHI: CONSULENTE SU BLOG RINGRAZIA COSSIGA
(V. ”ARCHIVIO GENCHI: COSSIGA, CONSULENTE…” DELLE 12:32)
(ANSA) – PALERMO, 28 GEN – Gioacchino Genchi risponde attraverso il suo blog al presidente Francesco Cossiga che e’ intervenuto oggi sulla sua vicenda. ”Lei mi conosce dal 1992 – scrive il consulente – quando il prefetto Vincenzo Parisi, capo della polizia, ci ha presentato, in una circostanza tragica per la storia del nostro Paese”.
”Ho apprezzato la lucidita’ del suo ricordo – si legge nel blog – e le considerazioni che mi ha voluto esternare nella sua telefonata di questa mattina. Ero sicuro che prima o dopo sarebbe intervenuto in questa vicenda, che mi vede involontario protagonista. Spero, anche col suo autorevole contributo, che gli uomini delle istituzioni e della politica sappiano
riflettere su questa mostruosa mistificazione”.
”Lei sa bene – aggiunge – che io, nella modestia delle mie funzioni, sono stato sempre e soltanto dalla parte dello Stato e non sono mai venuto meno al giuramento di fedelta’ alla Costituzione ed alle sue Leggi. Ho operato solo al servizio di valenti magistrati, giudici e pubblici ministeri, nell’esclusivo fine di ricerca della verita’ e di affermazione dei principi di Giustizia, anche nei confronti di chi e’ stato ingiustamente accusato di delitti che non aveva commesso”.(ANSA 28-GEN-09 ore 16:50)

Dopo mi ha richiamato e mi ha voluto incontrare.
Sono andato a trovarlo nella sua abitazione di Roma. Non ero mai entrato nella casa di un Presidente della Repubblica.
Mi ha ricevuto nel tinello, attiguo alla cucina.
Dalla semplicità di quella casa, dall’arredamento, dalle foto e dai cimeli che mi ha mostrato ho capito tante cose.
Insieme abbiamo ripercorso la comune passione di radioamatori.
Insieme abbiamo commentato le pagine buie della storia della nostra Repubblica, che ci avevano fatto conoscere ed incontrare per l’ultima volta nella primavera del 1992, qualche settimana prima delle sue dimissioni.
Nelle fasi della stesura del mio libro, “Il caso Genchi“, più volte ho cercato di convincerlo a confermarmi alcune circostanze. Mi ha rinviato di una settimana e poi non l’ho più sentito.

Al telefono mi hanno sempre detto che il Presidente stava male.
In occasione dell’ultimo incontro gli avevo comunque anticipato che non sarei stato tenero con lui, per via di certe sue amicizie.
Ricordo ancora la sua reazione. Mi ha dato uno schiaffetto sula guancia e sorridendo, mentre gli vibravano le guance, mi ha detto: “Caro Genchi tu sei uno dei pochi che con la tua onestà puoi anche permetterti di parlare male di me“.
L’ho ringraziato e gli ho ribadito che non stavo scherzando.
Al termine del colloquio, dopo aver sorbito un ottimo caffè, ha voluto che lo aiutassi ad alzarsi dalla sua vecchia poltrona. Con un braccio si è appoggiato sulle mie spalle e, camminando a stento, ha insistito a volermi accompagnare fino all’ingresso.

Ci siamo congedati con un arrivederci. Dopo qualche mese ho apprezzato le sue considerazioni sul mio conto, nel suo ultimo libro.
Dopo non ho avuto più possibilità né di vederlo, né di sentirlo al telefono.
Ho avuto sue notizie e suoi messaggi per il tramite di alcuni comuni amici giornalisti.

Oggi è morto.

Con la morte di Francesco Cossiga si chiude l’ultima speranza di disvelare molti segreti sui tanti misteri della storia d’Italia.
Fra questi, i più importanti, riguardano l’omicidio di Aldo Moro, la strage di Ustica, le infinite trame dei servizi deviati, fino alla fine del suo mandato e le origini della II Repubblica.
Cossiga ha preferito portare con sé questi segreti, nella tomba.
La sua morte, peraltro, coincide con una delle pagine più buie della II Repubblica, che volge al declino.
Nella crisi dei partiti, mentre ritornano a trionfare la corruzione, gli inciuci e l’affarismo, occorre un rilancio dei valori fondanti della Costituzione.
Ben oltre i partiti e le ideologie, occorre prima di tutto recuperare il primato della politica.
In tutto questo provo a immaginare quale sarebbe oggi il più bel regalo che il Presidente Napolitano potrebbe fare agli italiani.

Mi riferisco allo scranno parlamentare di senatore di vita che, con la morte di Cossiga, è rimasto vuoto.
Ebbene sì. Non ho paura a dirlo.
Io, come tanti italiani liberi, auspico che il Presidente della Repubblica proceda immediatamente alla nomina di senatore a vita di Marco Pannella.
Lungi da condizionamenti ideologici (per quello che ancora valgono le ideologie), ritengo che oggi Marco Pannella sia uno dei pochi politici che potrebbe contribuire al recupero del primato della politica.
La sua nomina a senatore a vita – per quello che è stato il suo impegno per la democrazia e per i diritti civili – ci farebbe sentire tutti più orgogliosi di essere italiani.
Con Marco Pannella senatore a vita potremmo ritornare a sperare che si riporti in Parlamento il dibattito sugli autentici temi della politica, del buon governo e delle aspettative della gente.
Capisco che questo non fa piacere a quanti vogliono tacere sui veri problemi degli italiani e preferiscono intrattenerci ancora sulle cronache delle camere da letto, del tinello o della cucina di qualche Vip.
Se Pannella sedesse al Senato al posto di Cossiga, forse anche Giorgiana Masi da lassù ritornerebbere a sorridere.