lunedì 17 agosto 2009

Salvatore Borsellino: «Mafia e Stato hanno ucciso mio fratello»


17 agosto 2009
Salvatore Borsellino racconta al Corriere Canadese tutte le nuove scoperte sulla strage di via D'Amelio
di Mario Cagnetta

Dopo tanti anni, un po' di verità sta venendo a galla sulla strage di via D'Amelio. Una strage che già allora era apparsa molto più complessa da capire rispetto a quella di Capaci dove perse la vita Giovanni Falcone assieme alla sua scorta.

Ora, per spiegare la morte di Paolo Borsellino si parla di servizi segreti deviati, dello Stato italiano che non solo cerca di scendere a patti con Cosa Nostra comandata da Totò Riina ma lascia anche da solo il magistrato che con Falcone più aveva contribuito alla lotta contro la mafia, emettendo così la sua definitiva condanna a morte. Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, dopo anni di silenzio ha deciso di parlare e ora ci racconta la sua verità.

Dottor Borsellino dopo strage di Capaci, suo fratello Paolo capì di avere le ore contate. Che cosa stava accadendo intorno a lui?
«In quel periodo non era soltanto Paolo ad aver capito di avere le ore contate. Uccidere Falcone senza uccidere Paolo equivaleva a fare un lavoro a metà. Paolo, infatti, se lasciato vivo, avrebbe continuato a fare quello che aveva fatto insieme con Falcone: ovvero combattere in tutte le maniere la criminalità organizzata. Lo avrebbe fatto da solo o contando sull'aiuto di pochi perché in fondo lo Stato ha sempre delegato ai magistrati certi compiti e certe responsabilità che, invece, avrebbe dovuto assumersi in prima persona».

La strage, però, arrivò a neanche sessanta giorni da quella di Capaci. Come mai una così brusca accelerata per liberarsi di un uomo che sarebbe dovuto morire comunque?
«Quello che nessuno si aspettava, e forse nemmeno Paolo se non negli ultimi giorni, era che la strage di via D'Amelio avrebbe seguito a così breve distanza di tempo quella di Capaci. Del resto, numerosi mafiosi avevano giudicato troppo prematuro questo passo e lo avevano fatto presente direttamente a Riina. Ma Riina rispose che la strage si doveva fare subito perché era stata promessa a qualcuno».

Il capo dell'ufficio istruzione di Palermo, Antonino Caponnetto, disse che Falcone morì nel gennaio del 1988 quando nominarono Antonino Meli come suo sostituto. Mi dica quando cominciò a morire Paolo Borsellino?
«Mio fratello iniziò a morire il primo luglio del 1992 dopo l'incontro che ebbe con il ministro della Giustizia di allora Nicola Mancino. Nonostante quest'ultimo continui a negare pervicacemente, lì deve essere stata proposta quella trattativa tra lo Stato e la mafia alla quale Paolo si deve essere opposto nella maniera più assoluta. E a questo punto non restava che quella soluzione e cioè uccidere Paolo ed eliminarlo in fretta».

Che cosa avrebbe potuto fare un magistrato sia pur influente come lui, per fermare una trattativa tra Stato e mafia?
«Poco. Ma di sicuro avrebbe portato quella trattativa agli occhi dell'opinione pubblica come aveva fatto dopo che si era trasferito a Marsala e aveva denunciato il colpo di spugna dello Stato nei confronti della mafia. In quell'occasione affermò che si stava distruggendo il pool antimafia. A seguito dell'intervista a L'Unità e a La Repubblica venne deferito al Csm che però non ebbe il coraggio di prendere dei provvedimenti disciplinari».

Suo fratello capiva molto bene i giochi sotterranei della mafia e della politica. Come spiega allora i tentativi di nominarlo capo della Superprocura antimafia e la candidatura a presidente della Repubblica? Non crede che esporre la sua figura servisse soltanto ad indebolirlo fino a renderlo un bersaglio da eliminare?
«L'idea è che certi coinvolgimenti non servissero altro che ad aumentare il rischio intorno alla sua persona. Non tanto per la candidatura alla presidenza della Repubblica che poteva lusingarlo. Ma per la nomina a capo della Superprocura antimafia. Era chiaro, infatti, che questo portava la mafia a vendicarsi. Mio fratello rimproverò all'allora ministro Scotti di non avergli preannunciato nulla di quello che stava accadendo. Ricordo anche che gli telefonai e che mi rispose confermandomi la sua disponibilità ad accettare quella carica a patto però che le misure di sicurezza intorno alla sua persona cambiassero radicalmente».

A distanza di anni ci può spiegare perché alcuni magistrati di allora hanno denigrato due eroi come Falcone e Borsellino?
«Ricordo che Paolo chiamò giuda un esponente del Csm. Questo giudice era Vincenzo Geraci, che aveva fatto credere a Caponnetto e Falcone che fossero stati raggiunti i voti necessari per poter nominare Falcone come successore di Caponnetto. In seguito le cose andarono diversamente e lo stesso Geraci votò contro Falcone, favorendo l'elezione di Meli che ostacolò l'attività di Giovanni e portò allo smembramento del pool. Falcone decise allora di andare a lavorare al ministero di Giustizia. Cosa che si rivelò positiva perché riuscì a sfruttare anche questo campo di battaglia e fece applicare il meccanismo di rotazione anche all'interno della Cassazione. Ciò significò l'esclusione dell'"l'ammazzasentenze" Corrado Carnevale dal maxiprocesso, che venne affidato a un'altra sezione. E le condanne emesse in primo grado vennero confermate. Questo provocò la reazione selvaggia della mafia con l'uccisione di Salvo Lima, di uno dei cugini Salvo».

La congiura di certi giudici in quale misura spaventava suo fratello? Di cosa aveva paura?
«Quello che Paolo poteva temere sta venendo fuori adesso in maniera lampante con la deposizione fatta da due magistrati che facevano parte del suo staff a Marsala. Questi colleghi nel '92 lo andarono a trovare e lo trovarono distrutto. Mio fratello piangendo gli disse di essere stato tradito da un amico. Questi erano i reali pericoli all'interno della magistratura. Probabilmente un amico, forse un magistrato, ha causato direttamente l'accelerazione della strage di via D'Amelio».

Su questo ci sono anche delle deposizioni di alcuni pentiti. Giusto?
«Un collaboratore di giustizia, che si chiama Pulci, ha anche raccontato che all'interno delle cosche tutti sapevano che mio fratello si era confidato con un uomo delle istituzioni. Era l'uomo sbagliato perché avvertì le cosche mafiose e, come disse testualmente Pulci, la mafia "fu avvisata di fare la strage"».

Le stragi di mafia sono sempre state piene di misteri. Quando fu ucciso il generale Dalla Chiesa fu aperta la cassaforte nel suo appartamento. A Falcone fu manomesso e cancellato il suo diario sul computer. E a suo fratello sparì l'agenda rossa. Quale legame accomuna tutti questi fatti?
«Mio fratello aveva segnato sull'agenda rossa tutte le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e tutte le valutazioni e le indagini sulla strage di Capaci della quale sosteneva a ragione di essere un testimone. Per questo motivo si aspettava di essere sentito dai magistrati. Ma non fu mai sentito da nessuno e venne ucciso prima che potesse farlo».

Anche qui tante prove, tante indizi, addirittura un uomo che viene visto allontanarsi con la borsa. Ma alla fine non è rimasto nulla, soltanto misteri e domande alle quali non è stata ancora data una risposta. Perché?
«La cosa terribile di tutta questa storia è che nonostante esistano le prove fotografiche della persona che ha sottratto la borsa dalla macchina, non si è mai riusciti ad arrivare alla fase dibattimentale di un processo. Questi processi, evidentemente, non dovevano andare avanti».

Paolo Borsellino a un certo punto disse anche alle persone più care «di aver capito tutto». Che cosa aveva capito?
«Quello che aveva capito lo ha lasciato detto nell'intervista a Fabrizio Calvi e a Jean Pierre Moscardo, un video mai trasmesso in Italia e che ora è possibile trovare su Internet. Mio fratello disse che erano in atto dei contatti tra la mafia e la politica e tra Cosa Nostra e alcuni imprenditori del Nord per portare avanti certe strategie per entrare nel mondo finanziario e in quello della politica. Lui lo lasciò detto in una frase che disse anche mia madre. "Sto vedendo la mafia in diretta". È chiaro che non parlava della mafia che aveva sempre combattuto, ma di qualche altra cosa: cioè la commistione tra mafia, politica, istituzioni e servizi segreti. Stava vedendo qualcosa di nuovo e lo aveva capito dopo le dichiarazioni di Gaspare Mutolo, che gli stava parlando di Signorino e di Contrada. Deve essere stato terribile per lui incontrare Contrada e Parisi proprio pochi minuti dopo che Mutolo gli aveva raccontato tutto questo».

Ora si parla di Castel Utveggio come del luogo dove materialmente è partito il comando per far esplodere l'auto parcheggiata in via D'Amelio. Lì c'era un ente che fungeva da copertura per i servizi segreti e da dove sono partite delle telefonate durante i giorni precedenti alla strage e forse anche subito dopo. Dopo tanti anni è questa la pista giusta?
«Sono tre anni che continuo a parlare del Castel Utveggio. Ora finalmente ci sono dei giudici seri a Caltanisetta e a Palermo e poi ci sono le rivelazioni di Massimo Ciancimino, il figlio di Vito. Il fatto che parli solo ora non deve sorprendere perché più volte ha sostenuto che certe domande prima nessuno gliele aveva mai fatte. E oggi tutto questo è finito anche sui giornali e finalmente si comincia a parlare di quello che avvenne a Castell Utveggio in quei giorni».

Lei però non ha mai avuto dubbi e ha sempre confidato su quella pista seguendo le intuizioni di Gioacchino Genchi, che per primo indicò quel posto come il punto cardine di tutta la strage di via D'Amelio.
«Oggi tutti parlano e ricordano, come ha fatto Ayala su Mancino. E i giudici ex colleghi di Paolo dopo tanti anni di silenzi vanno a deporre a Caltanisetta. Da mesi si parla di trattativa tra lo Stato e la mafia e si dà per scontato che ci sia stata. Si parla di Castel Utveggio in cui c'era un centro del Sisde. Da lì, come ha dimostrato Gioacchino Genchi, ci fu una telefonata che raggiunse una barca nel golfo di Palermo dove c'era Bruno Contrada con altri funzionari del Sisde. Poi lo stesso Contrada fece una telefonata, forse al Castello Utveggio o forse al centro dei servizi di via Roma, per chiedere che cosa era successo. Lì gli venne comunicato che era morto Paolo Borsellino. Tutto questo accadde 140 secondi dopo la strage. Ed è davvero strano perché io, che ero suo fratello, ebbi la certezza della sua morte soltanto cinque ore dopo».

Teme che la morte di suo fratello possa essere strumentalizzata per portare a compimento progetti di tutt'altro genere anziché per ristabilire la verità storica e fare veramente giustizia sul ruolo dei colpevoli e dei mandanti?
«Spesso mi chiedo da cosa nasca tutto questo interesse. Prima c'era gente che non ricordava e che ora ricorda e altri che prima non parlavano che adesso parlano. Sicuramente è in atto la fine di un ciclo di equilibri nati dopo la fine del '92. Questo forse porterà a un equilibrio nuovo. Che stia cambiando qualcosa lo dimostra anche quello che sta accadendo al presidente del Consiglio. Improvvisamente spuntano registrazioni, foto e sembra quasi che qualcuno abbia deciso che si deve cambiare qualcosa. Genchi dice sempre "chi di servizi ferisce, di servizi perisce". E mi trova pienamente d'accordo. Qualcuno sta mettendo sul tappeto degli elementi per destabilizzare questo equilibrio e crearne uno nuovo. Purtroppo non mi aspetto che le cose migliorino. Dopo Andreotti alla guida dell'Italia è arrivato Berlusconi e dopo Berlusconi non può arrivare che qualcosa di peggio».

Paolo Borselino in un discorso definì la lotta alla mafia come un movimento culturale e morale che deve abituare tutti «a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità e quindi della complicità». Che cosa manca all'Italia per sentire il fresco profumo di libertà?
«La gente, in Italia, si trova meglio a stare nel puzzo del compromesso e della indifferenza piuttosto che sentire il fresco profumo di libertà. Forse siamo una Paese fatto di gente abituata a tenere la testa per terra con qualcuno sopra che ce la schiaccia. Siamo un Paese schiavo di un potere che facendo strage della nostra Costituzione, che sta distruggendo l'indipendenza dei poteri e che sta togliendo ai magistrati e alle forze dell'ordine i mezzi per poter esercitare le loro funzioni. Siamo uno Stato che con lo scudo fiscale sta facendo del puro e semplice riciclaggio di Stato con la garanzia dell'anonimità. Che cos'altro le devo dire?».

Mi dica come vede il futuro...
«Dobbiamo aspettarci che gli avvenimenti precipitino। Spero che almeno all'interno di questi avvenimenti si riuscirà ad avere un barlume di verità. Perché solo così si guadagnerà qualcosa. E magari verrà fatta giustizia di tutti questi morti, compreso mio fratello sul quale da troppi anni è calato un silenzio davvero insopportabile».
http://www.corriere.com/viewstory.php?storyid=90553

giovedì 13 agosto 2009

Falcone non deve parlare



di Pietro Orsatti su Left-Avvenimenti - 7 agosto 2009
Dove sono i diari elettronici del magistrato morto a Capaci? Qualcuno potrebbe averli distrutti per cancellare le prove dell’esistenza di apparati deviati dello Stato.

La riapertura dell’inchiesta a Palermo e Caltanissetta sulla trattativa fra Stato e Cosa nostra e sulle stragi del ’92 costringe a un esercizio della memoria. Tornando, appunto, a quell’anno terribile. «Questa sera debbo astenermi rigidamente - e mi dispiace, se deluderò qualcuno di voi - dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi - se è il caso - ne parlerò in pubblico. Posso dire soltanto, e qui mi fermo affrontando l’argomento, e per evitare che si possano anche su questo punto innestare speculazioni fuorvianti, che questi appunti che sono stati pubblicati dalla stampa, sul Sole 24 Ore dalla giornalista Milella, li avevo letti in vita da Giovanni Falcone. Sono proprio appunti di Giovanni Falcone, perché non vorrei che su questo un giorno potessero essere avanzati dei dubbi». Così parlò Paolo Borsellino nel corso di una manifestazione promossa da MicroMega presso la biblioteca di Palermo il 25 giugno 1992, poche settimane prima della sua morte. I diari di Falcone. Anche Giuseppe Ayala, altro pm del maxi processo, parla di questi scritti sempre nel giugno del 1992. «Aveva un diario, sul quale scriveva tutto. Tutto era riportato in un dischetto, perché Falcone scriveva sul computer. Che io sappia, soltanto io, forse una volta Paolo Borsellino, e probabilmente la moglie di Falcone, Francesca, eravamo stati messi a conoscenza dell’esistenza del diario. Non so se il dischetto è stato trovato e, se è stato trovato, naturalmente sarà stato letto e conosciuto. Nel caso in cui, invece, non sia stato trovato o sia stato smarrito, si è perduta l’occasione per ricostruire dalla fonte più autorevole quel che è accaduto intorno a Giovanni Falcone, dentro e fuori il palazzo di Giustizia di Palermo».

Il procuratore di Caltanissetta dell’epoca, Salvatore Celesti (diventato in seguito procuratore generale a Palermo), che indagava per competenza sulla strage di Capaci, in prima battuta negò l’esistenza dei dischetti, poi ammise in parte l’esistenza dei file: «Sono stati acquisiti alcuni dischetti nell’abitazione e negli uffici di Falcone, ora affidati a tecnici per la trascrizione. Il lavoro non è completo, ed è segreto. Se nei dischetti ci sono episodi privati non saranno da noi resi pubblici». Talmente segreti che vennero addirittura cancellati, cosa che in qualche modo già temeva Ayala, come si intuisce rileggendo con attenzione le sue parole. Cancellati da un portatile Toshiba, da un’agenda elettronica Casio in via Notarbartolo a Palermo, dai computer del ministero di Giustizia in via Arenula a Roma. Da chi? Della vicenda si occupò anche Gioacchino Genchi che testimoniò in seguito. Ecco cosa dice: «Dopo l’accettazione di questo incarico, in effetti, ho dovuto rilevare una serie di atteggiamenti estremamente diversi da parte del ministero dell’Interno - afferma Genchi -. (…) Tenga conto che io allora rivestivo l’incarico di direttore della Zona telecomunicazioni (…) e proprio dopo la strage mi era stato dato l’incarico, per coordinare meglio alcune attività anticrimine, presso la Criminalpol della Sicilia occidentale di dirigente del Nucleo anticrimine. Il dirigente dell’epoca, che sicuramente non agiva da solo perché si vedeva che era portavoce di volontà e decisioni ben più alte, in effetti non mi ha certamente agevolato in questo lavoro (…); siamo ritornati con la decodifica dell’agenda, ho ricevuto varie pressioni (…) fui trasferito, per esigenze di servizio con provvedimento immediato, (…) dalla Zona telecomunicazioni all’Undicesimo reparto mobile». Tornando al procuratore Salvatore Celesti, c’è da dire che la storia, nonostante la sua carriera, lo smentì clamorosamente. Il 23 giugno 1992 il procuratore si lasciò sfuggire una dichiarazione che all’epoca fece scalpore. Affermò, infatti, che secondo lui sulla strage di Capaci «non c’è più mistero per quanto riguarda il diario». E contemporaneamente c’era chi cancellava la memoria del Toshiba, alterava i dati sui computer al ministero e sottraeva la scheda di memoria dell’agendina Casio. Il sospetto emerse subito, la conferma, anche grazie alla perizia di Genchi, arrivò qualche anno dopo. Ma intanto qualcuno, L’espresso, aveva rivelato parte del contenuto di questi diari, in particolare i 39 punti di conflitto e di dissidio fra Giovanni Falcone e il procuratore capo Pietro Giammanco che mise il magistrato morto a Capaci nella condizione di abbandonare la Procura e Palermo. Si andava, questo raccontava il settimanale, dalla decisione di togliere al giudice assassinato la delega per le inchieste di mafia fino alla controversia che coinvolse Falcone dopo che il nucleo speciale dei carabinieri consegnò in Procura il rapporto sulla mafia degli appalti e che il procuratore capo sottovalutò e sminuì pubblicamente.

Torniamo a Borsellino e a ciò che disse in quello che è stato il suo ultimo intervento pubblico prima della strage del 19 luglio 1992 a via D’Amelio. «Ecco perché forse ripensandoci, quando Caponnetto diceva “cominciò a morire nel gennaio del 1988” aveva proprio ragione anche con riferimento all’esito di questa lotta che egli fece soprattutto per poter continuare a lavorare». Sembra quasi che oggi si presenti il conto di quanto avvenuto 17 anni fa. «Quando si parla di trattative, di presenza in via D’Amelio di uomini dei servizi, di servitori dello Stato infedeli, di agende rosse e di uffici del Sisde a Castel Utveggio - spiega Salvatore Borsellino, fratello di Paolo - in realtà si raccontano cose che già allora erano emerse ma che poi forse sono state fatte cadere». Come avvenne nel caso delle dichiarazioni del tenente Carmelo Canale, ex maresciallo dei carabinieri promosso tenente per meriti speciali e collaboratore di Paolo Borsellino. Nel 1994 rilasciò dichiarazioni esplosive. Fra le tante, ecco alcune battute indicative del clima e del personaggio: «Il dottor Falcone era molto agitato, aveva gli occhi di fuori, parlava con Borsellino. “Caro Paolo, il responsabile del fallito attentato all’Addaura era Bruno Contrada” (…) Io rimasi sconvolto e mentre scendevamo le scale chiesi a Borsellino chi fosse Bruno Contrada. Borsellino mi pregò di non parlare con nessuno di quell’episodio (…). Nel corso di una conversazione telefonica Borsellino mi disse che aveva appreso da Falcone dell’intenzione di Gaspare Mutolo di iniziare a collaborare. Fra le prime cose che aveva rivelato, Mutolo aveva parlato di episodi di corruzione inerenti il giudice Domenico Signorino e Bruno Contrada».

Successivamente, nel 1997, Canale, accusato da due pentiti di mafia, venne processato per associazione esterna, e poi in seguito assolto (nel 2008 la conferma)। Anche sulle sue rivelazioni, e sulla sua vicenda, ci sono tante ombre, e come tante altre dichiarazioni dell’epoca tornano attuali. È sempre più evidente che, all’epoca, a Palermo due uffici dello Stato molto particolari, i Ros del generale Mario Mori e il Sisde di Bruno Contrada, agissero al limite della legalità e, a volte - è il caso di Contrada condannato - sfociassero in vera e propria collaborazione con la criminalità, in una sorta di continuità. La domanda è, oggi, se i due uffici agissero in concorrenza e all’oscuro ciascuno di cosa stesse facendo l’altro, oppure se su distinti punti si muovessero in convergenza. È certo, però, che senza la loro azione oggi si saprebbe molto di più di quello che avvenne fra il 1992 e il 1993, anno degli attentati a Firenze, Milano e Roma: i due anni delle stragi.
http://www.orsatti.info/archives/1608

19 luglio 1992, i punti oscuri della strage di via d'Amelio


di Pietro Orsatti - 28 luglio 2009 (http://www.orsatti.info)
INCHIESTA Nuova pista per le indagini sull'assassinio del giudice Paolo Borsellino. Per Gioacchino Genchi, che arrivò due ore dopo sul luogo dell'esplosione, individuando nel castello di Utveggio la località da cui sarebbe stato azionato il radiocomando, «occorre indagare sui giorni precedenti».

Nuova pista per le indagini sull’assassinio del giudice Paolo Borsellino. Per Gioacchino Genchi, che arrivò due ore dopo sul luogo dell’esplosione, individuando nel castello di Utveggio la località da cui sarebbe stato azionato il radiocomando, «occorre indagare sui giorni precedenti».

Ci sono domande sulle stragi del 1992 che non hanno mai avuto una risposta certa. Non sono bastati i processi, gli arresti, le indagini. Non sono bastate le ricostruzioni, le perizie e il lavoro di centinaia di agenti di polizia, carabinieri, magistrati. Non ci sono state risposte neanche quando il capo di Cosa nostra, Totò Riina, venne arrestato l’anno successivo. Anzi, il suo arresto ha aperto altri scenari, posto altri interrogativi. «La strage di Capaci fu una strage di mafia con interessi di Stato, quella di via d’Amelio una strage di Stato con interessi di mafia».

Questa definizione è diventata, con il passare del tempo, un’accusa sempre insistente, rafforzata dai tanti misteri, dalle tante ombre infittitesi in questi diciassette anni. Delle due stragi si sa molto, di una in particolare. Quella di Capaci (23 maggio 1992), dove persero la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e gli uomini della sua scorta, è sicuramente quella di cui si sa di più, si conoscono esecutori materiali e mandanti. Su quella di via d’Amelio, invece, periodicamente emergono dati nuovi, elementi di un puzzle ancora irrisolto.

A volte sembra essere arrivati a un punto, poco dopo i fatti sembrano smentirlo. Per cercare di capire cosa avvenne in quell’anno è necessario, e inevitabile, cercare di inserire questi due episodi nel momento storico che stava attraversando il nostro Paese. «Gli eventi cruciali del 1992 nessuno li dice. Tutti raccontano quello che succede dopo le stragi e nessuno parla di quello che successe prima – racconta Gioacchino Genchi, all’epoca commissario capo a Palermo e in seguito perito per il Tribunale di Caltanissetta sul processo Borsellino -. Nel 1992 si verificano due attacchi concentrici al sistema politico.

Uno viene da “tangentopoli”, dalla procura di Milano e dalle altre autorità giudiziarie che seguono, alcune bene e altre meno bene, l’esempio e il metodo investigativo milanese. E l’altro attacco arriva invece da un presidente della Repubblica che inizia a picconare quel sistema di cui ha fatto parte ed ha generato. Parliamo di Francesco Cossiga, un presidente della Repubblica che è arrivato alla fine del suo mandato e decide di “togliersi tutti i sassolini dalle scarpe”.

Oggi si direbbe che ha fatto “outing”. Messo addirittura sotto stato di accusa con l’impeachment. Ed è costretto a dimettersi perché c’è un qualcuno che in Italia vuole accelerare, e che magari per prendere le redini dell’Italia avrebbe voluto pure utilizzare i percorsi dell’autorità giudiziaria, strumentalizzare alcune iniziative e inchieste giudiziarie. Ma è ancora presto per parlare di questo. I dati sono questi: un presidente della Repubblica viene fatto dimettere e la strage di Capaci avviene mentre si sta votando l’elezione del capo dello Stato».

Poi la strage di via d’Amelio a Palermo del 19 luglio 1992. Genchi è uno dei primi investigatori ad arrivare sul posto. E ricorda ancora, perfettamente, quei momenti. «Il corpo di Borsellino ancora fumava per terra, i pezzi di Emanuela Loi cadevano dalle pareti, dall’intonaco del palazzo, e certamente là era scoppiato un ordigno che non poteva essere stato azionato sul posto. Perché se fosse stato azionato sul posto chiunque… sarebbe stato un attentato kamikaze e là non sono stati trovati morti se non i poliziotti e Borsellino. È da escludere che gli stessi poliziotti si siano fatti essi stessi un attentato, e non poteva, chi ha innescato la bomba, essere nei palazzi adiacenti perché sarebbe stato travolto dall’onda d’urto».

Uno strano paravento E quindi Genchi, con l’allora questore La Barbera, individua da subito l’unico punto di osservazione possibile. Castel Utveggio. «Dev’essere stato fondamentale l’elemento informativo – pro segue Genchi nel suo racconto -. C’è da tenere conto che non ci si può appostare con il joystick in mano per aspettare per mesi e giorni che arrivasse Borsellino, qualcuno ti deve pur dire quando Borsellino sta arrivando.

E poi ci vuole un punto di osservazione: visto che in via d’Amelio venne fatta anche l’intercettazione del telefono dell’abitazione della sorella e della madre per carpire questi elementi informativi e siccome l’intercettazione abusiva poteva essere eseguita solo in un ambito ristretto, per intenderci con la tecnologia di allora non poteva essere eseguita da Londra o da Milano o da Bruxelles, capimmo che doveva necessariamente essere stata posta da una località vicino. È allora che abbiamo ipotizzato come ci fosse un’unica postazione di ascolto clandestino e di avvistamento».

Nel castello aveva sede un ente regionale, il C.e.r.i.s.d.i., dietro il quale avrebbe trovato copertura un organo del Sisde. La circostanza era stata negata inizialmente dal Sisde che aveva così esposto ancor più gli uomini del gruppo investigativo costituito per indagare sulla strage. Questo scenario inquietante vede uomini dei servizi sul luogo di quello che è probabilmente il punto di osservazione e di azionamento del telecomando dell’autobomba che uccise Borsellino e i ragazzi della scorta. Non è l’unica “stranezza” quell’ufficio dei servizi nel castel Utveggio, posizionato in un punto strategico sulle pendici di monte Pellegrino.

Sempre Genchi, nella sua deposizione alla Corte di Caltanissetta racconta: «Rilevo che il cellulare di Scaduto, un boss di Bagheria condannato all’ergastolo fra l’altro per l’omicidio di Ignazio Salvo, aveva tutta una serie di strani contatti con varie utenze del gruppo La Barbera. Cioè, del gruppo degli altofontesi, di cui parlavo anche in relazione a quei contatti con esponenti dei servizi segreti, rilevo che questa utenza aveva pure contatti con il C.e.r.i.s.d.i. Quindi, questo C.e.r.i.s.d.i. mi ritorna un po’ come punto di triangolazione».

Una strana telefonata Genchi prosegue raccontando di una strana telefonata che arriva al castello nei giorni che precedono la strage. «C’è pure una telefonata, se ricordo bene, mi pare… di Scotto al C.e.r.i.s.d.i. Ovviamente, non so, avrà fatto un corso di eccellenza, perché là preparano manager, non so, avrà avuto le sue ragioni per telefonare». E questo Scotto chi è? C’è un certo Pietro Scotto, dipendente della società di servizi telefonici Elte, che ha un fratello, Gaetano, sospetto mafioso appartenente alla famiglia di Cosa nostra del rione Acquasanta di Palermo.

Ed è proprio Gaetano a mettersi in contatto con utenze del C.e.r.i.s.d.i. nei mesi precedenti l’attentato. E poi c’è quell’altra telefonata, una manciata di secondi dopo l’attentato, che raggiunge il capo palermitano dei servizi, Contrada, in gita nel golfo di Palermo su una barca. Un nuovo spiraglio sui possibili moventi della strage lo ha aperto recentemente Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, il sindaco del “sacco” di Palermo.

Massimo ha raccontato ai magistrati di Caltanistetta e di Palermo che la trattativa, quella che portò poi al famoso “papello” di Totò Riina con le richieste allo Stato da parte di Cosa nostra, non iniziò mesi dopo la strage di via d’Amelio, ma nei primi di giugno, ovvero nel periodo in cui Borsellino stava scavando sui mandanti ed esecutori dell’omicidio del suo amico e collega Giovanni Falcone.

Sempre secondo Ciancimino, protagonisti di questa trattativa sarebbero stati il capo dei Ros dei carabinieri Mario Mori, Vito Ciancimino (e lo stesso Massimo che è colui, per sua stessa ammissione, che ha il primo contatto con l’Arma), Totò Riina dal suo covo da latitante e il medico della mafia, il boss Antonino Cinà. Non solo, Ciancimino racconta che i contatti iniziali con i vertici di Cosa nostra avvenivano attraverso Cinà ma che il “papello”, ovvero le proposte di Riina allo Stato, non fu consegnato a Vito Ciancimino dal medico della mafia, ma da “una persona distinta” il cui nome per ora è coperto da omissis.

Queste dichiarazioni del figlio di Vito, sommate alle altre recenti del probabile futuro pentito Spatuzza, da un lato sembrano confermare nel rifiuto da parte del giudice assassinato di accettare la trattativa fra Stato e Cosa nostra il vero movente della strage, come da tempo sospetta e denuncia il fratello di Borsellino, Salvatore, dall’altro aprono spiragli sui probabili depistamenti sulle dinamiche dell’attentato messe in atto da elementi mafiosi e non solo nel corso dei tre processi già celebrati.

L’ultimo dichiarante si autoaccusa di essere colui che ha rubato per la mafia la 126 utilizzata poi come autobomba a via d’Amelio. Gaspare Spatuzza, che è uno dei killer di padre Puglisi, con le sue dichiarazioni ha rimesso in discussione quindi alcuni dei fondamenti del processo, aprendo di conseguenza la possibilità di una revisione.

Anche nelle sue dichiarazioni emerge un “uomo senza nome” come in quelle di Massimo Cancimino। Consegna, infatti, la 126 ad alcuni mafiosi di sua conoscenza ma alla presenza di un altro uomo, sconosciuto, che lui ritiene “estraneo”। Altri misteri, altri personaggi e gregari che compaiono a quasi vent’anni di distanza. E come spesso accade l’unica certezza in questa vicenda rimane la morte. Che ha dato appuntamento in via D’Amelio alle 16:58 e 20 secondi del 19 luglio 1992.
http://www.orsatti.info/archives/1575