domenica 26 luglio 2009

L'ombra dei servizi sulle stragi. Intervista a Gioacchino Genchi


di Claudia Fusani - 26 luglio 2009
Tratto da: l'Unità

Genchi: «Ancora indizi utili»

Andate a vedere là, al castello Utveggio, quella è roba vostra» ha detto Totò Riina venerdì parlando per la prima volta dopo 17 anni con i magistrati di Caltanissetta e accreditando l’ipotesi che sulla strage di via D’Amelio ci sia, anche, la mano dei servizi segreti. È il passaggio forse più significativo del colloquio investigativo durato quasi tre ore. Ed è un passaggio che si ritrova pari pari nelle motivazioni di sentenze passate in giudicato. «Le testimonianze del dottor Gioacchino Genchi e della dottoressa Rita Borsellino hanno offerto contributi determinanti su quello che realisticamente potrebbe essere stato l’intervento di soggetti esterni su Cosa Nostra (nella realizzazione delle stragi, ndr)» si legge nella sentenza di condanna per la strage di via d’Amelio. E ancora, qualche pagina dopo: «Il dottor Genchi ha chiarito che l’ipotesi che il commando stragista potesse essere appostato nel castello Utveggio, ipotesi utile per ulteriori sviluppi, era stata lasciata cadere da chi conduceva le indagini».
Piste abbandonate

Insomma, può essere un ossimoro, ma Riina e le indagini dicono la stessa cosa e puntano sui servizi segreti. «Di certo - spiega Genchi impegnato oggi in comizi e dibattiti a tenere alta l’attenzione sui nuovi sviluppi sulle stragi del 1992 e del 1993 - il riscontro alle mie indagini non arriva oggi da Riina ma da tracce telefoniche inequivocabili acquisite alle inchieste». E che prescindono dal fatto che magari quel processo sia da rifare dopo che il boss Gaspare Spatuzza ha smentito Scarantino, uno dei perni della vecchia inchiesta.
Genchi, esperto di telefonia, chiamato in causa di recente per eccessi nell’acquisizione di tabulati seppur come consulente delle procure, era all’epoca uomo di punta nel pool investigativo creato per la strage di Capaci e poi per via d’Amelio. (rapporto concluso nel maggio 1993 per divergenze). Scoprì, ad esempio, che, si legge in sentenza, «nel castello Utveggio (costruzione che domina Palermo e via d’Amelio, ndr) aveva sede il Cerisdi, ente regionale dietro il quale trovava copertura un organo del Sisde». E che questo luogo divenne crocevia di utenze clonate, telefonate intercettate e, soprattutto, «il possibile punto di osservazione per cogliere il momento in cui dare impulso all’esplosivo» caricato sotto la 126 parcheggiata davanti all’abitazione della madre di Paolo Borsellino e che saltò in aria alle 16,58,02 del 19 luglio 1992.
Le indagini hanno individuato Pietro Scotto (condannato e poi assolto) come «autore di lavori non autorizzati sulla linea telefonica del palazzo di via d’Amelio (l’intercettazione con cui Cosa Nostra seppe che il magistrato sarebbe andato lì, ndr)». Scotto è stato riconosciuto da due testimoni; era dipendente della società telefonica Sielte che lavorava con gli 007; soprattutto è fratello di Gaspare Scotto, boss del mandamento dove è avvenuta la strage. «L’analisi delle telefonate di Gaetano Scotto - si legge in sentenza - evidenzia contatti con le utenze di castello Utveggio fino al febbraio 1992».
Genchi, trova la prova che «un’utenza telefonica clonata (di una signora napoletana ignara di tutto, ndr) era in possesso dei boss fin dall’autunno 1991» . E che quell’utenza, «in prossimità del 19 luglio (giorno della strage, ndr) chiama una serie di villini che si trovano lungo il percorso che l’auto di Borsellino aveva percorso quella domenica». Si tratta di contatti telefonici con probabili punti di osservazione lungo il tragitto. Lo stesso apparecchio clonato chiama altre «utenze del Sisde che si incrociavano con telefoni che la domenica avevano chiamato i villini- punti di osservazione».
Il funzionario del Sisde

Era di uno 007 anche il numero di telefono trovato sulla montagnola di Capaci da dove fu fatta saltare l’auto di Falcone. Infine Bruno Contrada, lo 007 poi condannato per mafia. Il pomeriggio del 19 luglio era in barca con un altro funzionario, lo stesso il cui numero è stato trovato a Capaci. Ottanta secondi dopo l’esplosione, quando nessuno ancora sapeva, dal cellulare di Contrada partì una telefonata. Era diretta, ancora una volta, al Sisde. Ne aveva ricevuta anche un’altra, due minuti prima dell’attentato. Ma su questa c’è solo una testimonianza. All’epoca i tabulati non trattenevano le chiamate dal fisso al mobile. «Nonostante il tempo passato restano ancora molte tracce» dice Genchi, «vanno sapute seguire».

Riina ai pm ha puntato il dito «sul castello Utveggio». Qui negli anni novanta c’era un sede coperta del Sisde. E da qui partirono telefonate ai boss nei mesi prima e fino a pochi secondi dopo la strage.

Tratto da: l'Unità

venerdì 24 luglio 2009

TermometroPolitico intervista Gioacchino Genchi - ESCLUSIVA

Il Termometro Politico ha intervistato in esclusiva il consulente Gioacchino Genchi sulla questione delle intercettazioni, dei rapporti tra mafia e politica e del sistema dell'informazione. Dai nostri inviati a Roma Emanuele Rallo ed Alfredo Urciuolo.


Dottor Genchi, molti si chiederanno ancora in cosa consiste esattamente il suo lavoro. Ce lo vuole spiegare?

Io da oltre vent'anni svolgo un'attività di consuenza per l'autorità giudiziaria, e solo ed esclusivamente per l'autorità giudiziaria; lo puntualizzo perché a differenza di tanti altri periti che svolgono il proprio lavoro o per la difesa o per l'accusa, io ho sempre lavorato per i pubblici ministeri o per i giudici, nel settore dell'informatica, della telematica e nell'analisi dei dati di traffico telefonico e delle intercettazioni; le intercettazioni, fatte dalla polizia giudiziaria, poi mi vengono consegnate esattamente come le hanno i difensori degli imputati, i giudici, i pm e i periti dei vari tribunali. E con queste svolgo l'attività di analisi, di elaborazione dei dati, leggendo dei risultati che poi vengono riversati integralmente nei processi, ed è anche sulla base di questi risultati che vengono pronunciate le sentenze di assoluzione o di condanna.


Ma la nuova legge sulle intercettazioni, su cui il presidente Napolitano e il Csm hanno espresso dei forti dubbi, cambierebbe il suo lavoro? Ci sono cose che non potrebbe più fare?

Io, come ho già detto, non mi occupo di fare intercettazioni, quelle le può fare solo la polizia giudiziaria. Chiaramente, venendo meno le intercettazioni telefoniche, verrebbe meno la possibilità di accertare reati gravissimi inerenti all'associazione mafiosa, al traffico degli stupefacenti, della pedofilia, dei reati contro la pubblica amministrazione, e così via. Oggi gli strumenti telematici (telefonia, informatica) sono il migliore ausilio per la criminalità. Una volta il pericolo principale erano le armi da fuoco, tant'è che sono stati previsti dei reati gravissimi per la detenzione di armi pericolose; oggi però in ausilio al proprio lavoro la criminalità utilizza anche e soprattutto strumenti di comunicazione tecnologicamente avanzata, si pensi alle reti criminali internazionali che si avvalgono di questi strumenti per organizzare il trasporto di droga e il riciclaggio del denaro illecito proveniente da queste attività illegali. Togliere le intercettazioni alle indagini in materia di reati così gravi, anche connessi strettamente alla criminalità organizzata, è come pensare di mandare avanti una bellissima carrozza, quale è in questo caso l'indagine penale, togliendole i cavalli, senza i quali la "carrozza" non cammina. Le intercettazioni sono fondamentali nel momento in cui la criminalità, semplice od organizzata, utilizza il telefono come strumento principale per delinquere. Pensiamo ai latitanti, ai rapporti collusivi con imprenditori o con esponenti politici. Questi vogliono togliere le intercettazioni per eliminare il pericolo di cadere nelle intercettazioni, non solo per reati gravi, ma anche per vicende personali, anche a livello intimo; è paradossale come nel momento in cui fanno una legge per abolire le intercettazioni fatte dall'autorità giudiziaria stia emergendo che persone che hanno frequentato delle prostitute, magari perché portategli da soggetti sospettati di collusioni criminali come "prezzo" di una possibile corruzione, sono state "intercettate" dalle persone con cui hanno avuto rapporti intimi, evitando che le intercettazioni le facessero legittimamente le procure ma finendo comunque registrati dalle "escort", come le chiamano adesso.


Lei è stato oggetto di una violentissima campagna di attacchi da parte di esponenti del mondo politico, in particolare di centrodestra. Il presidente del Consiglio, parlando della sua vicenda, l'ha definita "il più grande scandalo della storia della Repubblica": secondo lei, perché ha usato quest'espressione? E lei come ha risposto a questo tipo di attacchi?

Il presidente Berlusconi probabilmente intravvedeva all'orizzonte quello che stava per capitargli, e quindi, poiché di scandali se ne intende, invece di pensare a lui che rappresenta il più grande scandalo non solo nella storia della Repubblica ma di tutta l'Italia unità, periodo monarchico compreso, ha pensato a me. Non so darmi altra spiegazione, è come se lei mi chiedesse perché il bue abbia dato del cornuto all'asino. Non so perché, ma è stato così, anche se sta emergendo in questi giorni che l'unico vero scandalo è Berlusconi, che ha trasformato palazzo Grazioli in un "mignottificio" e si avvale dell'impunità per sé e per tutti coloro che pensano di affermare l'arroganza della propria posizione nel nome della politica. Io non me la sono mai presa, ne ho anzi sorriso, probabilmente lo stesso Berlusconi si è accorto che gli hanno consigliato di dire una fesseria e magari dovrebbe guardare meglio da chi si fa consigliare.


Perché secondo lei la attaccano anche da sinistra? Anche loro hanno da temere per le sue indagini?

Le mie indagini riguardano tutti coloro che hanno commesso dei reati o hanno avuto a che fare con persone che hanno commesso dei reati. Io non ho mai svolto attività di indagine, per conto dei magistrati, su persone ritenute innocenti; noi le indagini le abbiamo svolte sempre e solo su persone che sospettavamo di comportamenti criminali, anche se dopo la verifica costituita dall'indagine stessa, queste si sono rivelate innocenti. Come se una persona, sentendosi poco bene, andasse dal medico, e questi le prescrivesse delle analisi per stabilire se vi sia o meno qualcosa da curare. Qualche volta si trova qualcosa per cui intervenire, altre volte si tratta di un falso allarme. Le indagini, che sono fatte da persone oneste, non vengono fatte a senso unico, per colpire Berlusconi o chi per lui; ci sono parecchi che hanno il gusto di fare le indagini in una sola direzione politica, forse in questo Berlusconi non ha tutti i torti, ma io ho sempre collaborato con magistrati che hanno fatto le loro indagini a 360°, senza preclusioni, pregiudizi o ricerca di colpevoli individuati a tavolino. Nelle vicende calabresi erano emerse delle collusioni, oltre che alcuni politici di centrodestra, anche di politici di centrosinistra. Centrosinistra che, a differenza di un centrodestra che non nasconde di farsi delle leggi ad personam, o che definisce "eroe" un mafioso pluriomicida come Vittorio Mangano, ha la presunzione di ritenersi "casto e puro", come se fosse un'eresia pensare che gente di sinistra possa commettere dei reati, o comunque collusi in vicende illecite; l'illecito, in questo caso i reati e le collusioni con la criminalità organizzata, fa parte della natura umana, il reato è una componente della condotta umana, certamente negativa ma pur sempre una componente, e come tale può caratterizzare l'uomo politico di destra così come quello di sinistra. L'indipendenza e l'autonomia della magistratura servono a garantire che le indagini, i processi e l'applicazione delle leggi siano uguali per tutti, siano essi di destra o di sinistra. Questo era quello che si stava facendo in Calabria, e nel momento in cui si sono toccati alcuni "santuari" della politica, alcuni esponenti della politica calabrese si sono ribellati e hanno, attraverso dei canali che hanno anche dentro la magistratura, mi riferisco a magistrati che poi vengono nominati capo di gabinetto dai ministri, anche da ministri di sinistra, e che un giorno fanno i capi di gabinetto e il giorno dopo assolvono degli imputati amici del ministro che li ha nominati e inquisiscono le persone che stavano indagando magari sul ministro e sugli amici del ministro; questa è appunto la logica becera di una certa sinistra che in certi casi fa del giustizialismo e poi, quando le indagini toccano uno dei loro, grida al garantismo e ritiene uno scandalo che qualcuno possa verificare i loro comportamenti.


Chi la avversa, a leggere le cronache, ha utilizzato contro di lei le parole del pm Ilda Boccassini, a cui i media hanno dato ampio spazio. Può spiegarci il suo punto di vista su questa vicenda?

La vicenda nasce da un contrasto che abbiamo avuto nella conduzione delle indagini di Caltanissetta allorché mi opposi al fermo di un indagato, Scotto (il quale successivamente fu assolto), per quanto riguarda la vicenda dell'intercettazione della sorella del giudice Borsellino, nella casa di via D'Amelio dove abitava anche la madre, e sulla "scaratterizzazione" di quella indagine: cioè nel momento in cui l'indagine si rivolse verso i mandanti esterni, occulti, di quella strage che non fu solo mafiosa, e si iniziò ad indagare su persone presenti nelle istituzioni, ci fu una "virata" al ribasso, per cui furono sopravvalutate le dichiarazioni di un collaboratore, Scarantino, nel tentativo di arrivare a dei risultati giudiziari che io reputo del tutto sbagliati. Scarantino dichiarò di avere partecipato ad una riunione di correnti di Cosa Nostra in cui la "cupola" aveva deciso di organizzare l'assassinio di Borsellino, la strage di via D'Amelio; ma chi conosce gli uomini di Cosa Nostra, chi ha conosciuto Scarantino, non può mai credere a queste parole, perché è impensabile che i capi di Cosa Nostra possano aver ammesso Scarantino a partecipare ad una riunione; io credo che i capi di Cosa Nostra a Scarantino non avrebbero nemmeno consentito di fare il parcheggiatore all'esterno del luogo della riunione, perché in famiglia Scarantino si era dediti al furto d'automobili, erano ladri d'auto e nient'altro. Pensare che Cosa Nostra si affidasse a Scarantino significa volerle dare una patente di imbecillità che secondo me è infondata; è nelle collusioni con gli uomini delle istituzioni che va cercata la vera causale e le vere responsabilità di quell'attentato. Oggi, a distanza di quasi 17 anni, i fatti a quanto pare mi stanno dando ragione, perché i processi costruiti sulla base delle dichiarazioni di questo collaboratore stanno cadendo miseramente. Aggiungo che questa sopravvalutazione di Scarantino è una responsabilità che pesa tutta su quei magistrati che gli hanno creduto, magari anche in buona fede, perché altri magistrati molto più accorti e che meglio conoscevano le dinamiche di Cosa Nostra, e mi riferisco a quelli di Palermo, allorché Scarantino rese le sue dichiarazioni che coinvolgevano anche esponenti della mafia palermitana, nessun magistrato di Palermo lo ha mai preso sul serio; quindi io non riesco a capire come un pentito come Scarantino possa essere giudicato inattendibile a Palermo, dove avrebbe operato e dove è stato condannato insieme al fratello per furti d'auto, e venga invece sopravvalutato a Caltanissetta fino al punto da essere considerato nelle sentenze di ergastolo di alcune persone indicate come esponenti della "cupola", mandanti o esecutori.


La storia delle stragi su cui è nata la Seconda Repubblica è tornata d'attualità proprio in questi giorni con le rivelazioni di Riina e Ciancimino jr. Lei è stato recentemente sentito dai magistrati in relazione alla strage di via D'Amelio, cosa ci può dire di nuovo rispetto a quella vicenda, e qual è la sua opinione sugli intrecci mafia-politica di quegli anni?

Rispetto a quello che ho detto ai magistrati non posso dire nulla di più, né posso dirvi quello che ho detto, e anche volendo non posso perché sono stato sentito per molte ore. Quello che posso dire è che vi sono degli elementi certi, incontrovertibili, che mi hanno visto mio malgrado testimone, che dimostrano che vi fu una trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra, che ha portato alla volontà di delegittimare e bloccare l'operato di quanti stavano, ed io con essi, svolgendo seriamente delle indagini. Quello che avvenne in Italia tra fine dicembre '92 e gli inizi di gennaio '93 è la prova evidente di come la cattura di Riina sia stata un cavallo di Troia, un regalo per conquistare spazio e posizioni che poi sono serviti per portare avanti un disegno, che purtroppo secondo me è tracimato negli ulteriori segnali che Cosa Nostra ha dato allo Stato con le stragi di Roma, Firenze e Milano, proprio per reclamare una trattativa che probabilmente era già iniziata prima delle stragi del '92 e a ridosso della sentenza del maxiprocesso. Cioè tutto inizia quando i boss di Cosa Nostra vengono sconfitti in Cassazione dopo aver ribaltato per molti anni in Cassazione l'esito dei processi; dopo quel fallimento iniziò il conto alla rovescia, ci furono le minacce, i segnali, i tentativi di dialogo, le stragi, e tutto quello che ha tragicamente segnato la storia d'Italia in quegli anni.


Recentemente ci sono stati degli interessanti rinvii a giudizio a Catanzaro, sia per politici di entrambi gli schieramenti, sia all'interno della stessa Procura, la stessa che aveva contribuito fortemente alla messa in stato d'accusa sua e del pm De Magistris. Lei ha partecipato a queste ultime indagini? E questi rinvii a giudizio crede che siano un punto a favore delle posizioni sue e di De Magistris che dimostrano l'accanimento che avete subìto?

I rinvii a giudizio ci sono stati nei confronti di soggetti già individuati nel corso delle indagini, mi auguro che siano supportati da elementi adeguati, quali quelli che stavamo cercando e che abbiamo trovato con De Magistris sul loro conto. Perché fare il rinvio a giudizio perché si è indagati dalla Procura di Salerno nella gestione di questa indagine è come confezionare un grande uovo di Pasqua, molto bello con un bel fiocco, e dimenticare di mettere dentro una sorpresa. Il processo penale non è fatto di clamori, di rinvii a giudizio, di nomi altisonanti eccetera, ma di contenuti processuali. Tornando all'esempio dell'uovo di Pasqua, se lei ad un bambino ne regala uno enorme, fatto col migliore cioccolato del mondo, il bambino se ne fa poco dell'uovo e del fiocco: la prima cosa che cercherà è la sorpresa, e io mi auguro che dentro questi rinvii a giudizio vi siano le sorprese, e cioè le prove e gli elementi per far condannare queste persone. Se viceversa prelude ad una assoluzione o ad un proscioglimento, era meglio che non venisse fatto.


Il Tribunale di Roma ha stabilito che lei non ha violato la privacy di nessuno ed ha disposto la restituzione del materiale raccolto svolgendo il suo incarico di consulente per diversi magistrati. Cosa pensa dell'eco ridotto che ha avuto questa notizia, rispetto a quello avuto dal sequestro iniziale, e pensa che ora potrà riprendere il suo lavoro come prima?

Guardi, tutta la stampa che si è occupata di me fa parte di una stampa di regime, prezzolata dal potere, dal potere economico o dalla politica. In Italia non c'è un giornalismo libero, non a caso io sto facendo questa intervista con voi, non con i principali network; è dovuto venire un allenatore di calcio, per giunta straniero, per dire che in Italia c'è una stampa prezzolata, d'altra parte i giornalisti non possono dire male di chi li paga, di chi gli assicura le carriere, magari in Rai, sulla base di menzogne o di vera e propria prostituzione. Quindi è normale che coloro che mi avevano attaccato e "lapidato", nel momento in cui i risultati hanno clamorosamente smentito l'impalcatura accusatoria fatta di fandonie e falsità orchestrate nei miei confronti senza alcuna accusa concreta, non ne abbiano parlato. La gente si sarebbe aspettata che io fossi colpevole di chissà quali reati, collusione con mafia, con massoneria, magari addirittura di pedofilia, tutto purché mi si trovasse colpevole di qualcosa. Quando invece è emerso che la mia sola colpa era stata quella di indagare sulle frequentazioni poco limpide di Mastella, piuttosto che di Rutelli, la gente non poteva non capire chi fossero le persone perbene e chi fossero i perseguitati. In tema di persecuzione, è chiaro che un potere giudiziario, sempre più avviluppato col potere politico, ed in concerto con il quarto potere che è quello della stampa, interviene spesso per creare questi "mostri" e per cercare di distruggere le persone che cercano di affermare in questo Paese maledetto un tantino di verità nel nome di una legge che sia uguale per tutti.


Considerando gli ambiti su cui ha svolto le sue indagini e le minacce che ha subito, ritiene oggi di essere in pericolo in qualche modo?

No guardi le minacce finora le ho ricevute solo dalla classe politica, dalle centrali di potere e dalla stampa collegata a queste, non le ho subite dalla mafia. Nel caso mio c'è stato un accanimento di delegittimazione e di minacce molto più perfido rispetto a quanto avviene con investigatori o magistrati minacciati o in seguito uccisi dalla mafia. Nel caso mio la criminalità si è rivolta ai politici per farmi "togliere di mezzo", non c'è stato nemmeno bisogno che fossero i criminali stessi a scendere in campo, ecco perché non ho paura di morire, perché loro hanno cercato di "uccidermi" attraverso le loro amicizie in Parlamento, al Copasir, alla Rai, a Mediaset, per cercare di impedirmi di continuare a fare il mi lavoro, perché hanno capito che in alcuni processi (il processo a Dell'Utri, il processo a Cuffaro, il processo alle talpe di Palermo, ai carabinieri collusi del Ros) sono stati determinanti i miei contributi. Tutte queste cose fanno comodo ad un sistema che vuole la giustizia sommaria solo per gli extracomunitari, che vuole il carcere solo per chi sbarca a Lampedusa o per qualche spacciatore di borgata, perché persino per lo spacciatore che entra in centro storico e magari rifornisce spesso e volentieri qualche VIP, esiste una legge diversa da quella per lo spacciatore di borgata. Io nel mio lavoro non mi sono mai abbassato a questa logica del considerare la "carica" degli indagati e ho lavorato con dei magistrati che hanno fatto sempre e solo il loro dovere. Tutto questo in Italia non è possibile, quando c'è un sistema come quello che si è instaurato.


http://www.termometropolitico.it/index.php/Politica-Interna/tp-intervista-gioacchino-genchi-esclusiva.html

martedì 21 luglio 2009

La vittoria di Via D'Amelio e l'omerta' della stampa di stato


La vittoria di Via D'Amelio e l'omerta' della stampa di stato

di Anna Petrozzi - 21 luglio 2009 (ANTIMAFIADuemila)
Poca gente, fallimento, insuccesso, niente politici… questo quanto fatto emergere dal mainstream della stampa di stato sulle giornate appena trascorse a Palermo in ricordo del giudice Paolo Borsellino e dei suoi agenti di scorta: Emanuela Loi, Eddi Cosina, Vincenzo Fabio Li Muli, Agostino Catalano e Claudio Traina.
Quattro gatti sotto il sole cocente a rassicurare la coscienza ipocrita e sporca degli italiani stravaccati al mare, quelli tantissimi invece, che hanno fatto bene a non scomodarsi perché tanto è inutile.
Beh peccato che le cose non siano andate esattamente così.
Se da una parte è vero che gli italiani e i siciliani erano vergognosamente pochissimi ad omaggiare la memoria di servitori dello Stato che hanno sacrificato la loro vita e la felicità delle loro famiglie per restituire un po’ di dignità al nostro popolo molliccio ed egoista che ben si identifica nella sua classe politica corrotta e clientelare, dall’altra non si può accettare che si neghi quanto di importante sia accaduto a Palermo in questi tre lunghi e intensi giorni.
Dopo tantissimo tempo, forse più di dieci anni, senza che vi sia stato, grazie a Dio, nessun morto oltraggiato dal piagnucolio di stato, più di cinquecento italiani si sono organizzati tramite la rete e a spese loro, adattandosi al caldo torrido di una Palermo trascurata, sporca e dimenticata, sono venuti a dimostrare di avere compreso, di essere consapevoli, che la lotta alla mafia non è di esclusiva competenza della magistratura e delle forze dell’ordine ma è quel movimento culturale, soprattutto di giovani, che tanto auspicava Paolo Borsellino.
In più di duecento persone hanno accettato la sfida di farsi quattro chilometri e mezzo in salita, alle tre del pomeriggio palermitano, da via D’Amelio fino su al castello Utveggio da dove potrebbe essere stato azionato il comando che ha ucciso Paolo Borsellino e i suoi ragazzi, per chiedere con la loro agenda rossa in mano verità e giustizia su quella e sulle altre stragi attraverso le quali si è fatta politica in Italia e attraverso le quali personaggi squallidi, lugubri e criminali hanno costruito il loro potere e lo detengono occupando indegnamente, come ricorda Salvatore Borsellino, le più alte cariche dello stato.
Quest’uomo coraggioso e arrabbiato che ha girato tutta l’Italia per risvegliare in tutti noi quei valori di cui suo fratello Paolo era rappresentante e baluardo. Quei valori di correttezza, rigore, pulizia interiore, semplicità, forza, coraggio, senso del dovere, umanità, solidarietà che, così come quelli di Giovanni Falcone, incutevano terrore nei mafiosi di Cosa Nostra e nei mafiosi del potere perché avrebbero potuto ostacolare i loro piani e far diventare il nostro un Paese degno, civile e democratico invece di questa italietta da quattro soldi che si vende al miglior offerente per un piatto di lenticchie.
Al grido di giustizia di Salvatore Borsellino hanno risposto più di settecento persone sabato sera, 18 luglio 2009, nell’atrio della facoltà di giurisprudenza di Palermo. Per non contare tutte quelle altre (almeno
300) collegate in diretta streaming da tutta Italia. Un convegno bellissimo, emozionato, partecipato. I relatori, a partire dal saluto iniziale di Rita Borsellino, sono stati continuamente interrotti da uno scrosciare costante, forte e commosso di applausi. Erano anni che a Palermo non si assisteva ad un evento del genere. E invece cosa ha scritto e trasmesso la stampa locale e nazionale? Niente. Un paio di righe qua e là e se citata la conferenza sono stati ben attenti i “nostri colleghi” a non scrivere che è stata organizzata da ANTIMAFIADuemila e che l’appello al sostegno dei magistrati Antonio Ingroia e Nino Di Matteo oltre che alla procura di Caltanissetta impegnati nelle delicatissime indagini sui mandanti impuniti, proprio il titolo della nostra conferenza ignorato da tutti, non è stato lanciato da un fantasma, da un soggetto indefinito, ma dal nostro direttore Giorgio Bongiovanni.
Si sono ben guardati i grandi giornalisti della grande stampa nazionale di riportare poi con attenzione e con il rispetto della completezza dell’informazione le parole dei relatori: Antonio Ingroia, Salvatore Borsellino, Luigi De Magistris e Beppe Lumia.
Informazioni importanti, nuove, esclusive, emozionanti, indice di voglia di riscatto e libertà: una notizia!!!! Ma dove eravate, cari, presunti colleghi, a dormire?
Stesso dicasi per il 19 luglio in via D’Amelio.
borsellino-paolo-web-big.jpgL’obiettivo che si era prefissato Salvatore Borsellino e tutti noi che lo abbiamo accompagnato era di impedire che come ogni anno quella strada teatro di una delle peggiori pagine della nostra storia forse oltraggiata dalle solite corone di fiori come per assicurarsi – dice sempre Salvatore – che Paolo Borsellino sia morto davvero.
Al loro posto quest’anno c’era invece un grande striscione con su scritto “quest’anno i fiori portateli sulla tomba dei vostri eroi” e a fianco c’era una lapide di cartone con la fotografia e le date di nascita e di morte di Vittorio Mangano.
Questa sarebbe dovuta essere la foto di apertura di tutti i giornali almeno per par condicio a tutto lo spazio dato al signor Marcello Dell’Utri, condannato in primo grado a nove anni e mezzo per concorso esterno in associazione mafiosa, e “all’utilizzatore finale” dei suoi buoni contatti, cioè il presidente del consiglio Silvio Berlusconi, quando hanno inneggiato al loro eroe, assassino e mafioso.
E invece non è stata nemmeno accennata.
Sta di fatto che le corone di fiori lì a marcire sul marciapiede quest’anno non c’erano e che i politici non sono venuti a fare la loro passerella.
Questo vuol dire solo una cosa: che Salvatore Borsellino ha vinto la sua sfida!
Che via D’Amelio è stata salvata che la gente comune si è riappropriata della memoria di una strada violentata da una oscura strage di Stato.
Che i politici hanno avuto paura di venire a confrontarsi con quei quattro gatti sotto il sole di via D’Amelio con le loro agende rosse alzate.
Vuol dire che via D’Amelio ha vinto, con buona pace della coscienza dell’italietta al mare.
La buona notizia è che i giornali cartacei stanno per fallire, mentre la rete sta prendendo il sopravvento. Il nostro modesto umile sito di ANTIMAFIADuemila ha raggiunto i 60.000 accessi univoci mensili.
Grazie a tutti voi, grazie a Salvatore Borsellino e a tutti i ragazzi che si sono adoperati perché quest’anno le commemorazioni non fossero di circostanza.