mercoledì 31 ottobre 2007

05-10-2007 - La Relazione "Bisignani" e la vicenda de Magistris

Palermo, 5 ottobre 2007

Com’è noto, da alcuni mesi, in Calabria, mi sto occupando di alcune indagini del Pubblico Ministero Luigi de Magistris.
In verità, in Calabria, mi sono occupato e mi sto occupando anche di altro.
Stragi, omicidi, indagini di mafia, con ergastoli e condanne per centinaia e centinaia di anni carcere.
Insieme a queste l’arresto di pericolosi latitanti e alcune assoluzioni, di imputati in carcere per anni, riconosciuti innocenti grazie al mio lavoro.
Di questo, ovviamente, nessuno ne parla.
I procedimenti del Pubblico Ministero de Magistris, invece, guadagnano il proscenio, come se gli unici problemi della Calabria fossero de Magistris, con le sue indagini.
Già solo a pensare a questo ci sarebbe di che riflettere.
Riflettere su una polemica e sulle disinformazioni che l’accompagnano, con l’intento di mistificare la verità e allontanare l’attenzione sui più gravi e reali problemi della Calabria.
Tirato in ballo in una vicenda che mi vede impegnato come consulente di un magistrato della Procura di Catanzaro, sono costretto a difendermi, sottraendo tempo prezioso al mio lavoro.
Invero nei avrei fatto volentieri a meno.
Mi sorprende pure che l’attacco provenga da un uomo navigato come Mastella.
Probabilmente di “Giustizia” se ne occupa da poco, ma nessuno può dire che con la politica abbia cominciato ieri.
Di certo, nella vicenda de Magistris ha sollevato inutili polveroni.
Non sarebbe stato nemmeno necessario un lungo rodaggio in "Via Arenula", per rendersi conto che stava sbagliando.
Lo stesso ha fatto con me dopo che l’indagato Luigi Bisignani – risultato in contatto col suo cellulare - era entrato in qualche modo nell’indagine della Procura di Catanzaro.
Le anticipazioni che ho scritto nella relazione “Bisignani”, pubblicata dal sito “radiocarcere”, lo hanno fatto imbestialire.
Nella mia relazione lui non era accusato di nulla. Eppure è andato in escandescenza, più degli indagati, che invece sono rimasti in silenzio, difendendosi nelle sedi processuali.
Non si può dire se la diffusione di quella relazione sia stata programmata ad arte.
Può darsi pure che gli interessi di qualcuno, siano quelli di strumentalizzare l’indagine di Catanzaro. Può darsi anche che abbiano cercato di colpire me, o il giudice Luigi de Magistris, o entrambi.
Quella indagine autorizza a formulare più di una congettura.
Non mi sentirei nemmeno di escludere – per onestà – che qualcuno abbia voluto tendere una trappola a Mastella.
Su questo nessuno più di lui può meditare, anche dopo le ultime esternazioni sulle richieste di trasferimento esplorativo del Pubblico Ministero de Magistris.
Certo è che, poco dopo la pubblicazione della relazione “Bisignani”, Mastella è andato su tutte le furie. E ha dato del “mascalzone” a chi aveva fatto diffondere sul Web di “radiocarcere”, il numero del suo cellulare.
Ha addirittura paventato il rischio di attentati terroristici, ed ha auspicato l’intervento del Ministro dell’Interno.
Va da sé che qualche cellulare l’ho maneggiato e di qualche attentato stragista mi sono pure occupato: ma non riesco ancora a capire come si possa attentare alla sua vita, conoscendo il solo numero del cellulare.
Condivido, però, la pretesa che quel numero non finisse in Internet, alla mercé di potenziali molestatori.
La privacy del Ministro andava salvaguardata.
Invero, nella copertina della relazione “Bisignani” – redatta per esclusivo uso processuale – se ci si fa caso, di numero di cellulare c’era pure il mio, con tanto di indirizzo di studio, numero di rete fissa, e-mail e pure il codice fiscale.
Né il suo, né il mio, né altri numeri di cellulari di chicchessia, era giusto venissero diffusi in un sito Web.
Per sanzionare la violazione non è nemmeno necessario far ricorso alle prerogative del parlamentare, dato che il diritto alla privacy va tutelato a qualsiasi cittadino.
Spero solo che Mastella non volesse riferirsi, con i suoi discorsi, all’impossibilità di valutare e considerare in un contesto investigativo preliminare, i contatti di indagati con un parlamentare (quelli intercettati e quelli che scaturiscono dai tabulati indiretti), salva la possibilità di richiedere l’autorizzazione al Parlamento ad utilizzarli, ove di confermata utilità.
Questo l’ho scritto e ribadito più volte in quella relazione, anche se nessuno fino adesso mi ha dato atto dell’assoluta correttezza di quelle argomentazioni e della essenziale linearità, con la quale ho trattato la posizione del Ministro.
Vorrei chiarire meglio che, nella esplicazione di quei riscontri, era imprescindibile riportare nella relazione il numero del cellulare del Ministro e quello di Bisignani, proprio nella prospettiva di potere consentire alla difesa ogni tipo di verifica e di eccezione.
Proviamo a immaginare se il cellulare di Mastella, o quello di Bisignani, fossero stati in uso alle rispettive colf, o agli autisti.
Vero è che la validazione del numero partiva dall’intercettazione con Saladino, per arrivare ai tabulati di Bisignani e ritornare alle “agende” di Saladino, dove quel numero era stato annotato in più occasioni.
In tutti i casi - comunque si consideri il riscontro - era indispensabile riportare il numero del Ministro, in un atto processuale che era destinato a rimanere segreto e comunque a non essere diffuso sul Web, come il numero del mio cellulare.
Ma, di certo, la relazione “Bisignani” non poteva essere pubblicata integralmente, come invece ha fatto “radiocarcere”.
Ma già se si considerano i commenti di “radiocarcere” alla pubblicazione, ci si rende subito conto che chi lo ha fatto non è certo amico mio, né tanto meno del dr. Luigi de Magistris: per settimane le critiche legittime su quel sito sono state accompagnate da insulti, senza alcuna possibilità di replica. Con de Magistris, per giorni, ci siamo pure contesi la “Pantegana d’oro”, soggiacendo alle poco lusinghiere considerazioni del redattore Riccardo Arena.

Alla satira sono abituato è quando è saputa fare mi fa pure ridere.
La relazione, invero, era stata tolta dal sito dopo circa un’ora: giusto il tempo di battere le agenzie con le colleriche indignazioni del ministro Mastella, prontamente rilanciate sul Web del Corriere della Sera e da tutte le testate nazionali il giorno dopo.
Una volta tanto, però, siamo stati fortunati.
Grazie all’arguzia e alla prontezza di un giovane cronista de "Il Giornale" - che ha scaricato per tempo il file della relazione - oggi siamo in condizione di capire quello che è successo.
E’ così che è saltato fuori l’imbroglio, nel quale Mastella è continuato a cadere – spero per lui senza saperlo – fino all’ultima apparizione a “Porta a Porta”.
Infatti, quello che voleva forse essere solo lo scoop di “radiocarcere”, ha evidenziato tutta la malafede di chi lo aveva ordito e ancora peggio di chi aveva gridato allo scandalo, ipotizzando un complotto mediatico diffamatorio.
In questo caso, per intenderci, il complotto sarebbe stato fra il “mascalzone” - da scegliere fra il consulente ed il Pubblico Ministero – e il giornalista che aveva diffuso la relazione.
Si dà il caso, però, che nella relazione del 25-07-2007, diffusa sul file PDF da “radiocarcere” intorno alle 18:00 del 27-07-2007, sia rimasta attaccata la lettera di trasmissione del Pubblico Ministero de Magistris al Tribunale del Riesame di Catanzaro.
Nella lettera c’è pure l’intestazione dell’Ufficio, la data del 26-07-2007, l’ora delle 12:36 e la firma del magistrato (vedi PDF).
In calce alla lettera, poi, c’è il timbro di deposito del Tribunale del Riesame di Catanzaro, con la data del 26-07-2007 e l’ora delle 12:36, oltre alla firma del cancelliere del Tribunale, che quel giorno e a quell’ora ne ha ricevuto l’originale ed attestato il deposito.
L’udienza, infatti, era fissata per il giorno 27-07-2007.
Dalle 12:36 del 26-07-2007, quindi, la relazione è stata messa a disposizione dei difensori dell’indagato Luigi Bisignani, che ne hanno ricevuto copia prima dell’udienza.
Né io, né la segreteria del P.M. Luigi de Magistris, potevamo avere copia di quel foglio, con quel timbro, diffuso da “radiocarcere”.
Dopo l’udienza del 27-07-2007, nel pomeriggio, “radiocarcere” ha diffuso la relazione con il numero del cellulare del ministro, dimenticando di togliere la copertina e la lettera di trasmissione con i timbri di deposito, che attestavano in modo incontrovertibile la provenienza dell’atto.
Come a dire che il diavolo fa le pentole, ma spesso dimentica di fabbricarci i coperchi.
Bene. Senza curarsi di nulla, il ministro Mastella ha gridato allo scandalo, addebitando al magistrato di Catanzaro ed al suo consulente la propalazione del proprio cellulare.
Da lì sono partite altre accuse, fino al punto che oggi Mastella mi ha definito in conferenza stampa “Licio Genchi”, con un evidente accostamento al "maestro venerabile".
Mastella non si è fermato qui.

I giornali sono stati bombardati dei miei guadagni per miliardi e dei "milioni di euro" che mi avrebbe liquidato il Pubblico Ministero de Magistris, per indagare su alcuni conoscenti di Mastella.
Fantasie!
I miei introiti di consulente sono noti: le liquidazioni dei magistrati vengono persino notificate agli imputati, alle persone offese e alle altre parti del processo, prima che vengano emessi i mandati di pagamento.
Chiunque può proporre opposizione. E si dà il caso che nessuno lo abbia mai fatto.
Né le persone offese, né gli imputati: anche quando con le mie consulenze sono stati condannati all’ergastolo.
Il che conferma quanto corrette siano le liquidazioni dispostemi dai magistrati di tutta Italia, che non sono certo un esercito di "associati a delinquere", col solo fine di farmi arricchire.
I costi delle indagini tecniche che ho curato sono i più bassi – in assoluto - fra quelli di ogni processo penale, dove vi sono intercettazioni, impianti tecnologici, perizie contabili ed altro.
A ciò si aggiunga che tutti gli incarichi da me svolti, vengono espletati solo a richiesta e sotto il diretto controllo dei Magistrati e degli organi giurisdizionali dello Stato.
Gli esiti della mia attività vengono integralmente ostesi alle parti processuali.
I relativi contenuti vengono riverificati da periti terzi e dai consulenti di parte e su tutto si svolgono delle assai approfondite verifiche dibattimentali.
Le pronunce giudiziarie, i riconoscimenti e le attestazioni di stima che, da un ventennio, hanno segnato il mio percorso personale e professionale, né sono un tangibile riconoscimento.
Ecco perché penso che il miglior modo di considerare il mio operato, sia quello di rifarsi agli atti processuali dove questo è stato valutato.
A parte i risultati del mio lavoro - consacrati nelle centinaia di ordinanze, di sentenze e di pronunce della Suprema Corte - vanno considerati gli ingenti introiti per lo Stato, che seguono alla condanna degli imputati di mafia.
Mi riferisco ai sequestri ed alle confische dei patrimoni mafiosi.
Giusto per fare un esempio, cito la consulenza svolta qualche anno addietro per la Procura Antimafia di Palermo, sull’esame dei computer sequestrati a Pino Lipari, il custode dei beni di Bernardo Provenzano, già capo incontrastato di “Cosa Nostra”.
In quei computer - che altri prima di me avevano esaminato accuratamente - sembrava che non vi fosse nulla di interessante.
Ma dopo un certosino lavoro, con sistemi all’avanguardia abbiamo recuperato da quei pc alcuni frammenti di spool di stampa di file, con le lettere di risposta ai “pizzini” di Bernardo Provenzano.
Oltre ai riferimenti a nomi, luoghi e persone - del tutto sconosciuti fino ad allora - abbiamo recuperato l’elenco di una serie infinita di beni immobili, intestati ad ignoti prestanome: negozi, appartamenti, ville e terreni per milioni e milioni di euro. Tutti in mano alla mafia che li amministrava.
Tutti quei beni – con un costo di poco superiore ai tremila euro per la mia consulenza – sono stati prima sequestrati, poi confiscati ed infine assicurati al patrimonio dello Stato.
Ma c’è di più. La mia consulenza allo Stato non è costata nulla.
Nemmeno i tremila euro che mi avevano liquidato i P.M.
In una analoga consulenza di qualche anno prima era stato individuato e sequestrato tutto il patrimonio di Buscemi.
Vero è che i costi sono stati anticipati dall’Erario, ma è anche vero che sono stati addebitati - con gli interessi e le altre spese del giudizio - agli imputati (tutti) condannati.
Per quella consulenza il mensile Polizia Moderna mi ha dedicato un lungo articolo, nel numero che, vedi caso, commemorava in copertina il grande Arnaldo La Barbera, con il quale iniziai a collaborare, ai tempi di Falcone e Borsellino.
Non voglio certo fare della piaggeria. Né come un “nano” mettermi al confronto con un “gigante” come Mastella.
Rifletta bene il Senatore Mastella: grande o piccola che sia - di Castelbuono o di Ceppaloni - ognuno di noi ha la sua storia.
O meglio, ognuno di noi è la sua storia!
Le ulteriori maldicenze sui miei redditi denotano poi come il ministro sia proprio a corto di argomenti.
In diversi giornali calabresi e nazionali sono spuntate cifre da vera e propria lotteria.
Hanno conteggiato tutti i costi sostenuti dalla Procura Generale di Catanzaro, e hanno detto che quelle erano le liquidazioni di de Magistris per le mie parcelle. Nientemeno.
Perché sia chiaro – e sfido chiunque a dimostrare il contrario – il giudice de Magistris non mi ha ancora liquidato un solo centesimo di euro per il mio lavoro!
Nemmeno il rimborso del traghetto, da Messina a Villa San Giovanni, quando con la mia macchina mi sono recato la prima volta a Catanzaro, per assumere l’incarico.
Sapevo, inoltre, che accettare incarichi giudiziari da de Magistris, per le inchieste “scomode” che stava facendo, non mi avrebbe arrecato alcun vantaggio.
Qualcuno - che vuole bene a me e che stima molto de Magistris – mi aveva pure messo in guardia.
Avrei potuto continuare ad occuparmi di rapine, mafia ed omicidi.
Mi chiedo se sia anche per questo che qualcuno voglia fermarmi.
Se non c’è qualche altra indagine più importante, di cui mi sto occupando, che forse fa paura a qualcuno.
Non ho paura delle minacce e ho la coscienza a posto.
Ho sempre messo nel conto i rischi del mio lavoro.
Invero, non avevo mai considerato quello di essere sequestrato, a scopo di estorsione.
Con i milioni di euro che Mastella mi attribuisce di avere ricevuto da de Magistris, andare in Calabria diventa pericoloso anche per questo!
A parte l’ironia, questo è il mio lavoro e ne sono fiero.
Non ho mai scelto gli incarichi giudiziari per mero tornaconto personale.
Non ho mai considerato il colore politico, la religione o la carica istituzionale degli indagati di cui mi sono occupato, dagli extracomunitari ai politici eccellenti, dai magistrati agli uomini delle istituzioni, ai mafiosi, ai pedofili ed agli stragisti.
L’onestà del mio approccio “laico” con le cose e la mia assoluta indipendenza, mi hanno portato a non innamorarmi mai delle indagini, a non sposare tesi precostituite, ma al contempo a non avere paura di nessuno.
Lo stesso dicasi nei miei rapporti coi Magistrati. Non mi sono mai fatto scrupoloso di dissentire da certe loro iniziative, anche clamorose, sia pure nell’assoluto rispetto dei ruoli e delle prerogative di ciascuno.
Non ho mai piegato la verità che ho contribuito ad accertare ai “desiderata” dei Magistrati che mi avevano conferito gli incarichi, né tanto meno di oscuri soggetti che possono avere ispirato certe indagini, con una malafede che talvolta ha travalicato le stesse condotte – obiettive – degli indagati.
Chi mi conosce sa come sono fatto e in pochi hanno creduto alle accuse di Mastella.
Da alcuni miei conoscenti – che pure stimano Mastella – mi sono giunti sinceri attestati di solidarietà e di forte preoccupazione, per la deriva che il ministro stava prendendo contro di me.
Nella mia vita, come nel mio lavoro, posso avere commesso tanti errori.
Mai, però, ho pensato ed ho agito per partito preso.
Nel fare questo mi sono lasciato sempre guidare dalla mia coscienza.
Sono stato tenace in ogni indagine, ma ho avuto pure l’umiltà ed il coraggio di fare qualche passo indietro, con la stessa determinazione con cui lo avevo fatto in avanti.
In tutto questo ho cercato di garantire al mio lavoro ed alle mie scelte un assoluta indipendenza.
Non ho avuto paura di niente e di nessuno, quando ho intrapreso le mie indagini.
Non mi sono più di tanto curato della mia incolumità, ma ho sempre preservato la libertà del mio pensiero.
E’ rimasta scolpita nei miei ricordi la dedica di un libro, donatomi da un grande poliziotto: «Vivi come se dovessi morire subito, pensa come se non dovessi morire mai!».
A quelle parole ed a quell’insegnamento ho uniformato la mia vita e le mie idee.
E se un uomo non è disposto a rischiare qualcosa per le sue idee, o le sue idee non valgono nulla, o non vale niente lui!
Gioacchino Genchi


http://www.gioacchinogenchi.it/

30-10-2007 - Quando sono le sentenze a parlare: estratto della sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta nel processo “Borsellino bis”

I giudici della Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta – che hanno condannato i boss ed i gregari di Cosa Nostra, che hanno contribuito all’eliminazione del Giudice Paolo Borsellino - così scrivono del contributo fornito dal dr. Gioacchino Genchi alle indagini sulla "strage di Via Mariano d'Amelio", del 19 luglio 1992.
E' appena il caso di ricordare, a chi non lo sapesse, che la sentenza della Corte d'Assise d'Appello di Caltanissetta, è stata integralmente confermata dalla Suprema Corte di Cassazione, rendendo definitive le condanne all'ergastolo per molti imputati, che erano stati assolti nel giudizio di primo grado.
Questa non è la patologia ma la fisiologia della Giustizia, che solo grazie al corretto contributo di Giudici indipendenti, Pubblici Ministeri, Avvocati, inquirenti e consulenti onesti, si riesce a realizzare in uno Stato democratico, che propugna l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Oggi, grazie anche al principio costituzionale che vuole che la GIUSTIZIA sia amministrata in nome del POPOLO, riusciamo a leggere queste parole da una sentenza, che ha scritto in modo definitivo una parte sostanizale della storia del nostro Paese, di cui il dr. Giaocchino Genchi è stato - senza volerlo - un modesto protagonista.
Nella misura in cui GIUSTIZIA è uguale a VERITA', verità vuole che queste parole siano note, anche anche a chi vorrebbe far finta di non conoscerle
:

… Le testimonianze del dr. Gioacchino Genchi e della dr.ssa Rita Borsellino hanno offerto non soltanto contributi determinanti per la ricostruzione della fase dell’intercettazione abusiva ma anche indicazioni di notevole rilevanza su ciò che potrebbe essere stato realisticamente l’intervento di soggetti esterni su Cosa nostra.
Due contributi che pongono in termini realistici e costruttivi una possibile linea di indagine sulle questioni tuttora insolute nella ricostruzione giudiziaria ma anche ormai storica della strage di via D’Amelio: le ragioni dell’improvvisa accelerazione nella esecuzione dell’attentato; le finalità cui mirava l’organizzazione con la realizzazione in quel tempo in quel luogo e in quel modo della strage; se quali e da chi fossero state offerte garanzie ai vertici dell’organizzazione in relazione alla prosecuzione della strategia stragista; se e quali apparati dello Stato sapevano dell’imminente nuova strage ed omisero di intervenire per impedirla o addirittura assecondarono gli esecutori mafiosi nel perseguimento di proprie finalità deviate.
Sul punto tanto il dr. Genchi che la dr.ssa Borsellino hanno fornito utili e inquietanti indicazioni convergenti con le affermazioni dei più importanti collaboratori di giustizia (Cancemi, Brusca, Siino, Pulci ).
Il dr. Genchi ha riferito che a partire dall’ipotesi dell’intercettazione telefonica e quindi dalla necessità di individuare il luogo in cui veniva dirottata la telefonata intercettata, certamente nell’area servita dall’armadio di zona Falde, e dal rilievo che il gruppo criminale operante avrebbe potuto operare in modo più efficiente se avesse potuto disporre nello stesso punto del ricevitore nel quale venivano deviate le telefonate intercettate e del punto di osservazione per cogliere il momento in cui dare l’impulso all’esplosivo, aveva individuato questo luogo nel castello Utveggio situato sul Monte Pellegrino, alle spalle della via D’Amelio, dal quale si dominava perfettamente la vista sull’ingresso dell’abitazione di via D’Amelio.
Il momento più inquietante di questa testimonianza consisteva nel resoconto sull’identificazione di chi avesse la disponibilità di questo luogo: organi dei servizi di sicurezza interna.
Il dr. Genchi ha chiarito che l’ipotesi che il commando stragista potesse essere appostato nel castello Utevggio era stata formulata come ipotesi di lavoro investigativo che il suo gruppo considerava assai utile per ulteriori sviluppi; essa tuttavia era stata lasciata cadere da chi conduceva le indagini al tempo. Il dr. Genchi esponeva tutti gli elementi sulla cui base quella pista era stata considerata tutt’altro che irrealistica:
La testimonianza di un agente DIA che si era trovato a fare da autista a Borsellino subito dopo l’interrogatorio di Mutolo, lo aveva trovato sconvolto e gli aveva sentito pronunciare nel corso di una conversazione telefonica la frase “ Adesso noi abbiamo finito. Adesso la palla passa a voi “. Le telefonate erano dirette verosimilmente al Procuratore Vigna e al procuratore Tinebra che aveva appena iniziato a indagare su Capaci.
Essendo stato, nel frattempo, individuato Scotto Pietro come autore di lavori non autorizzati sulla linea telefonica del palazzo di via D’Amelio, si era accertata la sua collocazione nell’ambito della rete mafiosa della città di Palermo. Era quindi emerso il nome del fratello, Gaetano Scotto, importante boss appartenente al mandamento nel territorio del quale era avvenuta la strage.
L’analisi del tabulato delle telefonate di Gaetano Scotto aveva evedenziato un contatto di qualche mese prima proprio con l’utenza del Castello Utveggio.
Nel castello aveva sede un ente regionale il C.E.R.I.S.D.E., dietro il quale avrebbe trovato copertura un organo del SISDE. La circostanza era stata negata dal SISDE che aveva così esposto ancor più gli uomini del gruppo investigativo costituito per indagare sull strage. Ma Genchi è stato molto risoluto nell’affermare che la struttura SISDE aveva abbandonato il castello Utveggio proprio nei giorni in cui su quel luogo si era appuntata l’attenzione degli investigatori.116
La scomparsa dell’agenda del dr. Borsellino.
La prova che un’utenza telefonica clonata, in possesso di sanguinari boss mafiosi, avesse in prossimità del 19 luglio chiamato dei villini che si trovavano lungo il percorso che l’auto di Borsellino aveva percorso quella domenica nonché il numero dell’Hotel Villa Igea, che si trovava in prossimità di via D’Amelio, nel quale soggiornavano latitanti mafiosi.
Ancora chiamate dal medesimo telefono ad utenze del SISDE, non declinate in precedenza, che si incrociavano con utenze cellulari che la domenica avevano chiamato ancora una volta le utenze di villini ubicati in prossimità della zona dalla quale Borsellino era partito. ...

… Queste piste investigative verso una possibile regia esterna alla manovalanza mafiosa furono bruciate dalla decisione di procedere al fermo di Pietro Scotto che il dr. Genchi ha giudicato intempestiva. D’altra parte questo “soccorso” esterno che si sospettava potesse essere stato offerto ai manovali del crimine non implicava che l’intercettazione dovesse essere eseguita con metodi più professionali di quelli ipotizzati nella consulenza tecnica. L’intercettazione doveva essere necessariamente rudimentale; proprio questo carattere metteva in evidenza che non era stata affidata a professionisti raffinati. Ciò confermava la rigida divisione dei ruoli tra la squadra mafiosa e l’ipotizzato supporto esterno …

… L’assoluta rilevanza del contributo del dr. Genchi è quindi evidente perché esso arricchisce il quadro, sebbene a livello di ipotesi investigativa fondata su elementi indiziari oggettivi; dà un senso ai persistenti vuoti di conoscenza, senza intaccare in alcun modo la tenuta della ricostruzione dell’attentato nelle fasi che è stato possibile far emergere con l’aggancio dell’anello debole Scarantino, il contributo del quale, pur avendo permesso di penetrare in profondità nella trama connettiva del delitto, ha pur sempre i limiti della marginalità del suo ruolo e della sua personalità.
Anzi, in base alla ricostruzione del dr. Genchi ( v. nota 109 ), si deve escludere che la plausibile ipotesi del sostegno esterno si sia potuta estrinsecare in un apporto diverso da quello logistico-informativo. L’ intervento materiale di supporto di questi elementi esterni, in base a tale interpretazione, non sarebbe stato affatto autonomo ma si sarebbe inserito in un’azione materiale, condotta in prima battuta e sul piano dell’esposizone materiale, dagli uomini dell’organizzazione mafiosa.
In questo senso sembra alla Corte doversi univocamente intendere il contributo del dr. Genchi e il suo riferimento al rinvenimento sulla montagna di Capaci di un bigliettino con un numero telefonico che riconduceva al SISDE e tutte le sue ulteriori successive indicazioni sull’esigenza di approfondire le indagini sul c.d. terzo livello, esigenza ostacolata dai vertici dell’amministrazione e che portò all’estromissione del dr. Genchi dalle indagini sulle stragi e all’inatteso trasferimento del dr. La Barbera al ministero nell’ottobre del 1992.118
Da quella data la partecipazione del dr. Genchi alle indagini era potuta proseguire solo nella veste di consulente dei pubblici ministeri e poi, di nuovo, con la costituzione del gruppo investigativo Falcone-Borsellino, nel quale si erano peraltro verificate divergenze di opinioni e contrasti di valutazione al suo interno e con i magistrati, in seguito ai quali il dr. Genchi aveva abbandonato definitivamente le indagini.
Il discorso del dr. Genchi, rileva ai fini della dimostrazione che l’intervento di istanze esterne a Cosa nostra rappresenta un’ ipotesi ammissibile e inquietante che non contraddice il quadro di riferimento di fondo. Tale impostazione presuppone da un lato la piena operatività delle squadre di Cosa nostra, secondo quanto fin qui emerso, e dall’altro l’esistenza di soggetti interni a Cosa nostra che costiuiscono i referenti delle predette istanze. Tali referenti non hanno alcuna corrispondenza con i ruoli e i gradi ufficiali dell’organizzazione, e costituirebbero quasi una sorta di servizio segreto interno collegato con quello esterno; ciò che giustifica il fatto che uomini come Brusca vedono operare ( e operano essi stessi ) in prima persona uomini di Cosa nostra e ignorano e anzi tendendo ad escludere l’operatività di questa rete “esterna” che invece plausibilmente, alla luce delle indicazioni di Genchi, incombeva sui “manovali” di Cosa nostra che dal loro canto operavano secondo la propria logica. Una razionalità che potrebbe però essere stata funzionale ad un altro ben più complesso disegno.
Questa situazione implica una triangolazione che il dr. Genchi ha così raccontato con riferimento a tutte le possibili inesplorate ipotesi investigative …

… In questo senso depone univocamente la deposizione del dr. Genchi. Egli ha riaffermato, pur introducendo il tema delle inquietanti ipotesi investigative abortite di cui è stato protagonista, che la strage venne compiuta con l’ausilio di un’intercettazione telefonica rudimentale, eseguita da Pietro Scotto per conto di Gaetano Scotto, cessata “ o poco prima o poco dopo il collocamento” davanti al 19 di via D’Amelio dell’autobomba rubata da Scarantino, seguita da un pedinamento a vista, supportato da una rete di telefonate informative che produsse, lungo la strada da Carini a Palermo, nella giornata del 19 luglio, un intensissimo traffico telefonico, cessato del tutto nelle giornate e nelle domeniche successive, avviata quando si venne a scoprire che il dr. Borsellino non sarebbe andato in via D’Amelio la mattina del 19 luglio ma che vi si sarebbe dovuto comunque recare entro quel giorno perché così indicavano con certezza le telefonate intercettate fino alla sera precedente …

… Dalla testimonianza di Rita Borsellino abbiamo invece acquisito un aggiuntivo prezioso contributo per comprendere le ragioni dell’accelerazione della strage, legata all’impulso inatteso che Paolo Borsellino aveva impresso alla sua attività istituzionale dopo la strage di Capaci.
Contro la sua volontà tale attivismo l’aveva proiettato alla ribalta massmediatica e della scena politica nazionale. Ma tale sovraesposizione, in parte inevitabile dopo Capaci, essendo storicamente il suo ruolo e la sua personalità associati a quella di Giovanni Falcone del quale aveva condiviso la storia professionale e le scelte più significative nell’azione di contrasto a Cosa nostra, si accrebbe, in modo a dir poco imprudente, per tutta una serie di iniziative assunte senza l’assenso del dr. Borsellino, la più clamorosa delle quali la sua candidatura alla direzione della nascente Procura nazionale antimafia da parte dei ministri Martelli e Scotti.
Il dr. Borsellino visse drammaticamente il periodo tra Capaci e la sua morte, stretto tra l’ovvia esigenza di reagire alla strage con un supplemento di impegno personale, la conoscenza di fatti ed il maturare di eventi che lo inducevano a pensare che la morte di Falcone fosse stata l’esito di spinte eterogenee, non tutte interne all’organizzazione mafiosa, e quindi la consapevolezza che il gioco fosse assai più complesso e pericoloso per essere giocato e vinto dalla semplice posizione di procuratore aggiunto di Palermo e che qualcuno stesse veramente giocando con la sua vita, secondo quando ha rivelato il tenente Canale: Borsellino, saputo della sua candidatura alla Procura antimafia da parte dei ministri, commentò che quel gesto equivaleva a “mettere gli ossi davanti ai cani”.
Da qui l’impegno investigativo a tutto campo, soprattutto nel settore “sensibile” della connessione mafia-politica, costituito dagli appalti pubblici che dal tempo di Siino Cosa nostra aveva utilizzato non solo per ricavare proventi ma soprattutto per sedere al tavolo per trattative di ben più ampio respiro.
Se, come aveva preconizzato lo stesso Paolo Borsellino, egli sarebbe stato davvero in pericolo solo se fosse morto Giovanni Falcone, dopo quest’evento egli si sentì veramente esposto all’attacco mafioso; il magistrato sentiva il precipitare degli eventi e cercò di reagire a suo modo. Di questa reazione ha dato conto la dr.ssa Rita Borsellino che ha descritto la convulsa solitudine in cui visse Paolo Borsellino in quelle sue ultime settimane di vita, le trappole che gli vennero più o meno consapevolmente tese e la consapevolezza degli stessi familiari degli enormi pericoli che si stavano addensando sul suo capo, senza che nessuno si preoccupasse di coglierli e prevenirli, secondo una storia che si ripete.
Dopo il 23 maggio, ha detto, Paolo Borsellino era stato travolto da una valanga di impegni di lavoro e straordinari. La sua vita non era mai stata abitudinaria e lo fu ancor meno dopo quella data.
La preoccupazione dei familiari per l’incolumità di Paolo non era insorta quel 23 maggio; era risalente ed in un certo senso immanente nell’esistenza di queste persone. Paolo ne parlava sin dai tempi del maxiprocesso, quasi per esorcizzare il pericolo; ma ne parlava con una sorta di fatale rassegnazione. Piuttosto estendeva le sue preoccupazioni anche ai suoi familiari.
Paolo Borsellino aveva più volte comunicato alla sorella la sua opinione che in molti omicidi eccellenti vi fosse assai più della sola mafia….

… Tale quadro d'obiettiva consistenza della tesi dell'avvenuta manipolazione del sistema di comunicazione telefonica fisso della famiglia Fiore-Borsellino si ancorava fra l'altro al giudizio espresso dal consulente tecnico Genchi in ordine alla effettiva messa in atto di siffatto stratagemma: le riferite anomalie dell'impianto telefonico da un lato, e la verifica sull'impianto eseguita dal medesimo consulente, inducevano quest'ultimo a propendere per un apprezzamento in termini
d’elevatissima probabilità in ordine ad un'attuata intercettazione telefonica abusiva.
Operazione, questa, la cui materiale realizzazione doveva considerarsi senza dubbio alla portata delle competenze tecniche facenti capo a Scotto Pietro, il quale, del resto, era stato fatto oggetto, ad opera dei testi oculari, di un inequivoco, duplice, riconoscimento come la persona notata …

… In conclusione, non vi è ragione di ricorrere a mandanti occulti o ad un terzo livello per ammettere che nei grandi delitti di mafia esistono complicità e connivenze che il sistema non riesce ad individuare e a portare alla luce per tutta una serie di ragioni che qui non è necessario affrontare ma che sono peraltro note e fanno parte del problema più ampio delle ragioni e condizioni, studiate da altre discipline, che rendono strutturalmente basso il livello di legalità complessivo del nostro Paese.
Ma detto questo, e richiamando quanto in questo processo ha avuto modo di dire il dr. Genchi sui condizionamenti e i veri e propri divieti opposti a quanti all’interno degli apparati pubblici agivano con l’esclusivo intento di ricerca della verità, e nel caso di specie all’indagine su tracce e dati che riconducevano ad un sostegno logistico ed informativo al commando mafioso di non identificati soggetti appartenenti ad apparati pubblici, non sussiste il minimo dubbio che il delitto di via D’Amelio sia stato deliberato dal gruppo dirigente del tempo di Cosa Nostra ed eseguito dai capi mandamento incaricati che si sono avvalsi degli elementi migliori e di maggior fiducia di cui disponevano al tempo. …

… E’ agli atti, prodotta dalla difesa, una inquietante lettera del 7 dicembre 1992 del dr. Genchi indirizzata al questore Cinque e da questi trasmessa alla procura della Repubblica di Caltanissetta, nella quale il valente funzionario esprime tutto il suo rammarico per l’isolamento nel quale era venuto a trovarsi all’interno della sua amministrazione dopo avere accettato l’incarico di consulenza sui c.d. “diari di Falcone”, per le fughe di notizie deformate, provenienti dall’interno dell’amministrazione, per le censure che dalla stessa amministrazione gli erano pervenute per il modo di indagare prima e per avere accettato poi di collaborare lealmente e senza restrizioni con l’autorità giudiziaria, appunto in veste di consulente indipendente. La lettera, in risposta ad un sollecitazione del questore a predisporre misure di “autotutela personale” , si chiude con l’inquietante comunicazione essere la miglior misura di autotutela l’accurata conservazione di appunti, scritti, risultati di indagini. …

… E’ agli atti, prodotta dalla difesa, una inquietante lettera del 7 dicembre 1992 del dr. Genchi indirizzata al questore Cinque e da questi trasmessa alla procura della Repubblica di Caltanissetta, nella quale il valente funzionario esprime tutto il suo rammarico per l’isolamento nel quale era venuto a trovarsi all’interno della sua amministrazione dopo avere accettato l’incarico di consulenza sui c.d. “diari di Falcone”, per le fughe di notizie deformate, provenienti dall’interno dell’amministrazione, per le censure che dalla stessa amministrazione gli erano pervenute per il modo di indagare prima e per avere accettato poi di collaborare lealmente e senza restrizioni con l’autorità giudiziaria, appunto in veste di consulente indipendente. La lettera, in risposta ad un sollecitazione del questore a predisporre misure di “autotutela personale” , si chiude con l’inquietante comunicazione essere la miglior misura di autotutela l’accurata conservazione di appunti, scritti, risultati di indagini. …

... Scarantino aveva pure parlato di una intercettazione telefonica da parte di un telefonista che aveva un parente o fratello uomo d’onore “appartenente ai Madonia”; anche del telefonista Scarantino non aveva fatto il nome mentre il nome di Scotto era stato riferito dalla Scarantino allorché aveva parlato di quest’uomo di fiducia dei Madonia. Puntuale e straordinariamente riscontrato dal teste dr. Genchi il riferimento che Scarantino gli aveva fatto all’intercettazione eseguita “tramite le cabine telefoniche poste sulla strada” e all’abitualità con la quale Scotto eseguiva quei servigi per conto di Cosa nostra. ...

... Alla luce di quanto dichiarato dal dr. Genchi e di quanto riferito dagli altri collaboratori di giustizia delle cui dichiarazioni si è detto appare del tutto chiaro come queste ultime indicazioni di Andriotta finiscano con il fornire una robusta conferma di attendibilità per Scarantino, con il rafforzare per la reciproca convergenza l’attendibilità intrinseca di entrambi e quindi anche con il provare l’effettività dell’intercettazione. ...

martedì 30 ottobre 2007

28-10-2007 - Rettifica al Sole 24 Ore del 28-10-2007: “I segreti del superperito hi-tech”, di Lionello Mancini

Oggetto: Richiesta di rettifica all'articolo de: "Il Sole 24 Ore" del 28-10-2007 dal titolo: “I segreti del superperito hi-tech”, a firma di Lionello Mancini.

Palermo, 28 ottobre 2007

Al direttore de “Il Sole 24 ore”
Ferruccio de Bortoli
ferruccio.debortoli@ilsole24ore.com

Gentile direttore,
prescindo, per il momento, dall’approfondire le ragioni che hanno portato il redattore del suo giornale a contattarmi.
Non conoscevo, né avevo mai sentito parlare del giornalista Lionello Mancini, prima di ricevere una sua e-mail di presentazione, con l’intestazione del suo giornale.
Non contesto in nessun modo la libertà di pensiero e di espressione di chicchessia, né, tanto meno del redattore del giornale da lei diretto.
Mi sia però consentito di rettificare il contenuto di alcune false dichiarazioni che mi vengono attribuite, nell’articolo pubblicato oggi (28-10-2007) dal suo giornale, col titolo “I segreti del superperito hi-tech”.
Tralascio molte inesattezze e palesi incongruenze riportate nell’articolo e vado al sodo.
Mi riferisco alle parti che attengono ad alcune mie presunte dichiarazioni, in realtà mai rilasciate.
Rispondendo alle domande del giornalista Mancini sulla vicenda Contorno, ho detto cosa del tutto opposta a quanto riportato nell’articolo, precisando che mai avrei potuto nutrire alcun sospetto sul dr. Gianni De Gennaro, per la fiducia che Falcone gli aveva accreditato, anche dopo l’arresto del “pentito”.
Non ho mai detto, né tanto meno pensato, che Falcone “sia sceso a patti” con chicchessia, posto che il senso della dichiarazione è peraltro in palese contraddizione con la premessa, attribuitami pure in modo distorto, nel virgolettato.
Mi sono per il resto note le iniziative giudiziarie di Falcone dopo l’arresto di Contorno e la profonda amarezza che egli ha espresso nei suoi scritti, proprio sul conto dell’ex pentito.
Avrà pure memoria che Totuccio Contorno, ed i suoi sodali, sono stati arrestati grazie ad una brillante operazione degli uomini della Polizia di Stato e non certo ad opera dei vigili urbani di San Nicola l’Arena.
Su questa vicenda sono stati svolti dei processi e scritti e versati fiumi di inchiostro.
Ognuno può conservare le riserve che vuole ed al contempo esprimere ogni perplessità, sempre nel rispetto della verità e della dignità dei morti, che peraltro non avrebbero la possibilità di replicare.
Non voglio pensare ad una trappola, se non altro per la serietà che caratterizza la testata, a nome della quale il giornalista mi si è presentato.
Gli avevo però inviato un dettagliato curriculum, in cui la vicenda è chiaramente raccontata e al contempo circoscritta.
Quanto, poi, alla ulteriore domanda su quali fossero i miei rapporti col dr. Gianni De Gennaro, ho precisato che gli avevo persino mandato un biglietto di auguri, quando è stato nominato Capo della Polizia.
La domanda e la risposta vertevano sulle false notizie giornalistiche, secondo cui io avrei acquisito e sviluppato i tabulati telefonici del Prefetto Gianni De Gennaro (di cui non conosco, né ho mai conosciuto le utenze telefoniche), del Ministro dell’Interno Amato, del Presidente del Senato Marini e di decine e decine di alte cariche dello Stato, fra cui alcuni magistrati, con i quali – vedi caso - sto pure lavorando, in delicati e molto riservati procedimenti penali.
L’esigenza di chiarezza era ed è assolutamente pressante, specie dopo la sequela di notizie giornalistiche - appartenenti a ben identificati organi di stampa, ben diversi dal suo - con le quali si è cercato di delegittimare il mio operato di consulente dell’Autorità Giudiziaria, nei procedimenti in cui sono stato nominato.
Questa è stata una delle ragioni per le quali ho accettato di incontrare il giornalista Mancini.
Mai ho presentato istanza alcuna per l’ammissione al SISDE o ad altro servizio segreto.
Non ho nemmeno presentato istanza alcuna, per le progressioni di carriera in Polizia.
Le mie uniche istanze riguardano il concorso nella Polizia di Stato del 1985, che ho superato; la domanda di aspettativa (non retribuita) del giugno del 2000 e l’iscrizione a Slow Food, di qualche anno addietro.
Le ulteriori gratuite considerazioni riportate nell’articolo, sul “capitolo controverso” della mia biografia, con riguardo alle indagini sulle stragi di Capaci e di Via d’Amelio, negano la evidenza della storia giudiziaria di questo Stato, che testimonia la correttezza del mio operato.
Queste non sono mie dichiarazioni, né ancor meno mie valutazioni, ma attengo a quanto riportato a chiare lettere nelle sentenze dei giudici di merito sulle stragi del “92”, che hanno pure superato il vaglio della Suprema Corte di Cassazione, persino con la condanna all’ergastolo di imputati assolti nel primo grado di giudizio.
Proprio nelle motivazioni di quelle sentenze è detta e ribadita la correttezza e la determinanza del mio contributo processuale, anche con riguardo ai tentativi di delegittimazione, che allora come oggi sono costretto a subire.
In una fase così difficile del mio percorso professionale, continuare a cercare di mettermi contro qualificate istituzioni e personalità dello Stato, nei confronti delle quali nutro profondo rispetto, oltre che stima personale, concorre con la sequela di artate disinformazioni, che mi auguro non abbiano animato il suo redattore, quando ha deciso di contattarmi, per scrivere l’articolo che ha poi pubblicato.
Concludo precisando di non avere rilasciato alcuna considerazione sull’operato del Ministro Mastella. Di non averlo mai nominato con l’appellativo di “Signore” e di essermi limitato a considerare che stava solo sbagliando, a reagire nel modo in cui ha reagito, considerando l’apporto professionale che avevo dato all’inchiesta di Catanzaro.
Sul punto ho anche fornito al redattore del suo giornale un testo scritto, del quale non ha tenuto conto in nessun modo, nella redazione dell’articolo.
Non mi ha nemmeno inviato copia di quanto intendeva pubblicare, come mi aveva assicurato prima di congedarsi.
Nessuno – per quanto mi risulta - ha mai parlato di me definendomi “Licio Genchi”, eccetto il Ministro Mastella, in una conferenza stampa, tenuta all’indomani della trasmissione di “Anno Zero”, in cui il giornalista Marco Travaglio lo aveva assimilato al “maestro venerabile”.
Quando poi il suo redattore mi ha chiesto delle repliche sulle dichiarazioni rese sul mio conto del Procuratore di Catanzaro Mariano Lombardi, ho solo precisato che non potevo replicare ad un indagato, in un procedimento nel quale - come è noto - sto svolgendo un incarico di consulenza, per conto della Procura della Repubblica di Salerno.
Le domande e le richieste di precisazioni hanno riguardato - nella specie - i contenuti di una serie di articoli di stampa sulle vicende di Catanzaro, con la diffusione integrale dei contenuti delle mie relazioni di consulenza, sul quotidiano “Calabria Ora”.
Le ulteriori allusioni sui nomi dei miei pc (Ciampi, Fassino, Mastella, Ficarra, Picone, Litizzetto, Franco, Ciccio, Verdone, Benigni, ecc.) – attengono agli aspetti di una ironia che il suo redattore non ha voluto cogliere, e se l’ha colta l’ha integralmente travisata nel testo dell’articolo, dando di me e del mio lavoro una rappresentazione assolutamente falsa e tendenzialmente distorta.
Dopo quelli che potevano essere i contingenti riferimenti a Mastella, l’avere a tutti costi tirato dentro nell’articolo persone come Ciampi, o Fassino, omettendo non a caso gli altri nomi dei pc (che non sono server), rende alla citazione un senso assolutamente falsato, sull’alone di mistero che l’articolo ha voluto suscitare, su una circostanza banale, che io stesso avevo riferito all’articolista, spiegandogli il perchè di quei nomi, che nulla hanno a che vedere con le persone e con le indagini di cui mi sono occupato e mi sto occupando.
Sulle restanti considerazioni dell’articolo, tengo a precisare che la mia attività di consulente tecnico dell’Autorità Giudiziaria – a parte le ironie - viene esercitata solo a richiesta e sotto il diretto controllo dei Magistrati e degli organi giurisdizionali dello Stato, che mi conferiscono gli incarichi.
Gli esiti della mia attività vengono integralmente ostesi alle parti processuali e sui relativi contenuti si svolge la verifica dibattimentale, con le pronunce giudiziarie che, da un ventennio, hanno segnato il mio percorso personale e professionale.
Ecco perché penso che il miglior modo di considerare il mio operato, sia quello di rifarsi agli atti processuali che lo hanno valutato, più di quanto possa fare io, o quanti – spero in buone fede – travisano le mie dichiarazioni, o ancora peggio il mio pensiero.
Le chiedo pertanto di pubblicare questa mia breve nota, per onore di verità.
Penso che lei concorderà con me su questa opportunità, non foss’altro per la correttezza e la leale collaborazione, che in più occasioni ho offerto ai giornalisti della sua testata, che mi hanno contattato e che hanno redatto pagine intere, su temi scientifici assai importanti del mio lavoro.
Quegli articoli, però – a differenza di quello di oggi – hanno riscontrato solo e soltanto unanimi consensi ed apprezzamenti, nel mondo giudiziario e nelle altre testate giornalistiche, che li hanno ripresi.
Con Lionello Mancini, purtroppo, c’è stata qualche incomprensione, se vogliamo restare ottimisti.
Confido nella sua sensibilità, per cogliere gli ulteriori aspetti della vicenda, sui quali per brevità non mi soffermo.
Si renderà conto, gentile direttore, che essere censurati e se del caso anche diffamati da persone delle quali, per necessità d’ufficio, si è in qualche modo chiamati ad occuparsi, rientra nel gioco delle cose.
Tirarne in ballo delle altre – vive o morte – e contrappormele nonostante la mia volontà, il mio operato ed il mio pensiero, attiene ad un ambito della mistificazione della verità, che non appartiene alla mia storia ed ancor meno alle tradizioni del suo giornale.
Affido quindi a lei la migliore sintesi della rettifica, che la prego di pubblicare quanto prima sul suo giornale, ai sensi della legge sulla stampa.
Cordiali saluti
Gioacchino Genchi
http://www.gioacchinogenchi.it/